rete galileo – gruppo di sperimentazione
Non solo far di conto [versione completa .pdf]
percorsi integrati di matematica e scienze nella scuola di base
Benevento 2010
Questo volume è stato prodotto grazie al finanziamento PON [versione completa del volume pdf]
Progetto B1-FSE-2009-926
Contributi di
Brunella Brillante, Stefano Califano, Orsola Ciarlo, Ester Cocchiarella, Giulio De Cunto, Mariateresa De Pietro, Filomena Di Biase, Angelina Di Santo, Rosa Ferrara, Angela Follo, Michelino Frattolillo, Antonietta Guerra, Rossana Guerra, Paolo Guidoni, Donatella Iannece, Anna Maio, Gina Marino, Ciro Minichini, Carmela Pagnozzi, Antonietta Palma, Patrizia Parlapiano, Maria Maddalena Pascarella, Concetta Maria Torrillo, Roberto Tortora, Maria Giuseppa Vallarelli, Michelina Venditto, Roberta Virgilio.
Indice
Presentazione 5
Introduzione
Cambiare si può: per esempio 9
Capitolo I
Sommare numeri consecutivi 19
Capitolo II
Prime Forze: schemi per guidare l’inizio
di un percorso di comprensione 61
Capitolo III
Galleggiamento 89
Capitolo IV
Acqua e zucchero: una “dolce” situazione
problematica 127
Appendice
Accordo di Rete “Galileo” 171
Presentazione
Giulio De Cunto
Dirigente Scolastico del 5° Circolo di Benevento
Durante uno dei miei primi anni d’insegnamento, all’inizio degli anni ’80, mi sono trovato a lavorare presso la scuola media di Morcone, in provincia di Benevento, nello “studio sussidiario” pomeridiano, apripista del Tempo Prolungato che sarebbe arrivato di lì a poco. Un pomeriggio seguivo un gruppo di ragazzi della seconda, ed in particolare Franco D’A., che aveva frequentato per tre anni la prima ed ora si accingeva a ripetere il suo insuccesso in seconda. Franco era alle prese con una semplice espressione con le frazioni, in cui non si orientava minimamente; al suo ennesimo errore su una somma di frazioni mi scappò di dirgli: ”ma che diamine, non sai fare queste cose?”; Franco mi guardò con un’espressione da cane bastonato e, nel suo dolce dialetto morconese, mi rispose: ”ma sei io avessi saputo fare queste cose, stavo ancora qua?”. Franco non ha mai imparato a risolvere un’espressione; anche per questo non fu ammesso alla classe successiva per l’ennesima volta, ed abbandonò la scuola. A me è rimasto, oltre alla vergogna perpetua per l’uscita infelice, un rovello: perché Franco non riusciva a raccapezzarsi in una semplice espressione, mentre a casa sua lavorava i campi con il trattore, compiendo azioni concatenate tra di loro, con un grado di complessità logica maggiore di quello presente in una espressione con le frazioni? Perché la scuola chiede ai ragazzi quello che non sanno e non chiede loro di parlare di quello che sanno fare?
Negli anni seguenti, come docente, sono quindi partito dai ragazzi che avevo di fronte per cercare di aiutarli a capire (?) come funzionano le cose del mondo, anche grazie al fatto che le scienze sono naturalmente la discipline dei “perché”, ed ai “perché” nessun ragazzo si sottrae.
A metà degli anni ’90 ho avuto la fortuna, grazie alla partecipazione ad un corso di formazione organizzato dall’allora IRRSAE della Campania, di venire in contatto con il Nucleo di Ricerca Didattica di matematica della “Federico II” di Napoli, che per la scuola media era coordinato dal prof. Roberto Tortora, che avevo conosciuto in un seminario quando ero studente; ho partecipato per alcuni anni, quindi, ai lavori del Nucleo, avendo così la possibilità di crescere sia professionalmente che personalmente, grazie al confronto con splendide persone, docenti universitari e insegnanti d scuola media, tutti impegnati a capire come migliorare il proprio lavoro. La fatica di arrivare a Napoli dopo la scuola, qualche volta senza nemmeno avere il tempo di mangiare, era abbondantemente ricompensata dal piacere della compagnia. L’impegno di riflessione sulle basi teoriche della disciplina, il confronto con i colleghi e con altre realtà educative, la frequentazione attiva di convegni e seminari mi ha sicuramente consentito di diventare un insegnante migliore; è a partire da questa convinzione che, una volta diventato Dirigente Scolastico, mi sono posto il problema di come offrire ad altri docenti l’opportunità di trovare un sostegno alla propria crescita professionale, poiché la qualità del sistema educativo, al di là degli slogan e delle mode, si basa sulla qualità del lavoro quotidiano di aula dei docenti.
Grazie alle risorse messe a disposizione dal Piano Operativo Nazionale (e grazie alla presenza nella scuola di ottime insegnanti), presso il 5° Circolo Didattico di Benevento, per tre anni consecutivi, si sono potuti incontrare docenti di varie scuole della provincia di Benevento, per confrontarsi su strategie didattiche nell’insegnamento delle discipline scientifiche. Nel settembre 2008 è stata formalizzato con un accordo la rete “Galileo” tra 17 Istituzioni Scolastiche della provincia di Benevento, a sostegno dell’attività di ricerca didattica.
L’attività svolta ha potuto contare sull’apporto “amorevole” di esperti di eccezione: Paolo Guidoni, Roberto Tortora, Donatella Iannece, Ciro Minichini.
Nel corso di tre anni scolastici si sono tenuti incontri per oltre 300 ore di formazione in presenza; sono stati coinvolti, a vario titolo e con varia intensità, circa 70 docenti della scuola di base (dall’infanzia alla secondaria di 1°); non si contano, ovviamente, le ore dedicate in classe a provare nuove strategie didattiche o le e-mail scambiate dalle persone coinvolte nella sperimentazione. Alcuni dei lavori prodotti sono stati anche già pubblicati. A maggio del 2010, in tutte le scuole dei docenti coinvolti nella ricerca c’è stata una “giornata aperta” in cui i bambini e ragazzi hanno presentato alle loro famiglie i lavori più significativi.
Il lavoro che presentiamo in questa pubblicazione riporta solo una parte del percorso compiuto insieme dai docenti nell’ultimo anno. L’illustrazione delle motivazioni e delle strategie didattiche sarà presentato in un’altra parte di questa pubblicazione.
A me preme sottolineare che dalla esperienza di lavoro effettuata si possono trarre alcuni spunti di riflessione sull’organizzazione di percorsi di formazione continua, per coltivare ed incentivare la figura dell’insegnante-ricercatore, un insegnante che sappia sperimentare insieme con i propri alunni nuovi percorsi didattici, riflettendo sulle basi epistemologiche delle discipline d’insegnamento e sulle difficoltà reali del “fare scuola” oggi.
Le proposte che seguono sono state avanzate, a nome della rete “Galileo”, all’Assessorato alla Pubblica Istruzione della Regione Campania, perché le facesse sue (le Regioni hanno competenze proprie nel campo dell’istruzione…):
• Sostenere percorsi di formazione a distanza, autonomamente determinati da scuole o da reti di scuole; assicurare le risorse per completare i percorsi di formazione iniziati in presenza con il sostegno a distanza da parte di tutor di ricerca; (si potrebbe utilizzare sia una piattaforma della Regione Campania sia le piattaforme delle singole scuole o reti);
• Assicurare risorse aggiuntive nell’organico di Istituto per le scuole o reti di scuole che attuino sperimentazioni didattiche, così da consentire ai docenti coinvolti in sperimentazioni di avere un alleggerimento del carico orario di lezione; non si propone di “tirar fuori” dalle classi i docenti impegnati in progetti di ricerca, ma consentire loro di avere momenti da dedicare alla riflessione e all’approfondimento teorico;
• Creare una collana editoriale per la pubblicazione dei lavori di ricerca didattica più significativi prodotti in regione; la pubblicazione potrebbe avvenire sia on-line, sia a stampa, per una capillare diffusione delle migliori pratiche didattiche a tutte le scuole della Campania;
• Rimborsare le spese sostenute da docenti che fanno parte di un gruppo di ricerca per la partecipazione a convegni o seminari a carattere residenziale, sia che si svolgano in Campania sia che si svolgano fuori regione.
L’attuazione degli interventi predetti potrebbe essere gestita direttamente dalla Regione senza trasferimenti di risorse alle singole scuole; per la determinazione delle attività da incentivare la Regione Campania potrebbe avvalersi di un comitato scientifico, che selezioni le attività sulla base di criteri decisi e pubblicati contestualmente all’emanazione del bando relativo all’iniziativa.
Sono piccole cose, ma potrebbero dare un segnale di attenzione per quanti non hanno perso la voglia di impegnarsi a migliorare la qualità del proprio lavoro di insegnante.
Introduzione
Cambiare si può: per esempio
A cura dei coordinatori dei gruppi di lavoro
<La scuola è di tutti>: è il titolo di un libro uscito recentemente.
<Quindi tutti dovrebbero (pre)occuparsene>: sembrerebbe una ragionevole conseguenza.
In poche pagine vorremmo, tutti insieme, proporre quale è stato per un paio di anni il nostro modo di (pre)occuparcene: sperando così di invogliare qualcun altro ad avviarsi su strade di questo tipo.
Nelle pagine che seguono sono così presentati aspetti “esemplari” delle attività innovative in area scientifico-matematica avviate negli anni scorsi in alcune Scuole di base (infanzia, primaria, secondaria di I grado) della provincia di Benevento. Le attività si sono via via articolate sulla base di una struttura di collaborazione fra Circoli diversi: sostenuta, in forma di rete, da fondi del PON, ed organizzata secondo modalità originali brevemente descritte nel prossimo capitolo I.
Le attività sono cresciute, attraverso inevitabili difficoltà e progressive soddisfazioni, attorno agli incontri periodici di un “nucleo di progetto”: il Dirigente responsabile dell’organizzazione, qualche Insegnante in rappresentanza di ciascuna delle numerose scuole coinvolte, quattro Universitari (due matematici e due fisici) impegnati da molti anni nella ricerca di modalità di insegnamento più efficaci e efficienti a livello di scuola di base. Come punto di partenza sono state così assunte le acquisizioni della ricerca sul campo: cioè che, detto in forma di slogan- obiettivo-risultato, a scuola <capire si può> (dalla parte dei ragazzi) e <insegnare si può> (dalla parte degli adulti), “bene” e con reciproca motivazione e soddisfazione di “tutti”. D’altra parte, nel confrontarsi con le condizioni reali delle scuole reali, ci si è posto come obiettivo del lavoro in comune quello di esplorare le possibilità dei cambiamenti concreti, graduali ma significativi, che appaiono oggi necessari per avvicinare il fare-scuola alle potenzialità e alle necessità culturali ed emotive di chi (ragazzi e adulti) vi è coinvolto per un così lungo tempo- di-vita.
Gli incontri sono dunque partititi dalla proposta-discussione di “nuovi” modi di guardare ad alcuni argomenti disciplinari comunemente visti come aridi-e-difficili, anche con il coinvolgimento diretto degli adulti in esperienze ben studiate sul piano della risposta dei ragazzi; e sono proseguiti attraverso la proposta-discussione di brevi percorsi didattici in cui la progressiva comprensione sia sostenuta da un quadro concettuale adulto esplicito e coerente, e dalla motivazione associata a modalità di lavoro in classe capaci di coinvolgere esperienze e curiosità dei ragazzi. Nel discutere insieme problemi e risultati legati all’inserimento di “nuovi” elementi in un “normale” corso di lavoro scolastico ci si è infine concentrati su quello che succede quando a un certo punto si arriva a “provarci” veramente: con un’ipotesi finale, emersa dopo anni di lavoro concreto, forse di nuovo riassunta nello slogan-obiettivo-risultato che <cambiare si può>. Purché …
Immediatamente evocata da ogni proposta-sollecitazione a cambiare qualcosa nel fare-scuola emerge sempre la domanda: ma è proprio necessario cambiare? ma perché? ma che cosa?
Subito, quindi, una precisazione: il senso in cui qui si parla di cambiamenti necessari e possibili nel fare-scuola non ha (quasi) nulla a che vedere con le <riforme epocali> di cui la scuola italiana è stata recentemente oggetto (pressoché inerte). Non si è trattato nel lavoro fatto insieme, non si tratta qui, di problemi organizzativi o amministrativi o di gestione del personale; né (esplicitamente) di problemi di architettura curricolare o di verifica delle competenze. Benché sia ovvio che tutti questi aspetti incidono comunque, e molto pesantemente, sul fare-scuola effettivo e sulle sue possibilità di efficacia e efficienza; e che quindi occorre tenerne conto in qualunque progetto concreto di intervento.
Il problema affrontato è stato piuttosto quello del senso e del significato di quello che a scuola succede in relazione agli attori umani che vi sono coinvolti: i ragazzi in primo luogo, nella loro relazione con gli strumenti culturali comuni di cui dovrebbero “appropriarsi” per utilizzarli nel costruire le loro personali storie di vita; e gli insegnanti, nella loro professionalità non di passivi trasmettitori-verificatori di competenze comportamentali, ma di creativi mediatori verso modi di vedere e di agire, modi di pensare e parlare, … modi di vivere che attraverso il tempo la cultura ha validato come essenziali alla convivenza civile.
Dunque, come “funziona culturalmente” la nostra scuola di base, oggi, in particolare in area di scienze e matematica? Decisamente male, in media
– a parte le numerosissime, felici “isole” di professionalità individuale e di gruppo. Da un lato i rilevamenti internazionali a campione (campioni di individui, campioni di domande) “certificano”, pur nella loro problematicità, livelli di prestazione media a 15 anni in buona sostanza disastrosi: sia in assoluto, sia in relazione alla trentina di Paesi “sviluppati” che ci precedono. D’altro lato abbiamo esperienza diretta e diffusa di alcuni dati di fatto (fra loro correlati), in particolare relativi alle aule e alle ore di matematica e scienze: che in media a scuola <si sta male>, alunni e insegnanti; che in media la scuola <non fa bene>, cioè non assolve il suo compito costituzionale di recupero delle differenze culturali di ingresso e di costruzione di strumenti culturali affidabili per tutti; che anzi spesso la scuola in modo diretto <fa male>, perché invece di valorizzare le potenzialità connesse alle diversità iniziali dei ragazzi le trasforma profondamente producendone differenze, cognitive e motivazionali, che quasi sempre marchiano i successivi sviluppi di vita. Mentre basta dare un’occhiata alla grettezza culturale e didattica della quasi totalità dei libri di testo “liberamente adottati” dagli insegnanti per avere una conferma della quasi ineluttabilità del disastro epocale in cui siamo immersi.
Ma con che criterio possiamo allora continuare ad affermare che <capire si potrebbe>, che <insegnare si potrebbe>, che (forse) <cambiare si potrebbe> … sempre <purché …>?
Il <primo motivo principale> per cui qualcuno non capisce le “cose” (non è motivato allo sforzo necessario a capire) è che le cose stesse non gli sono spiegate (motivate) in modo adeguato. Vale per i ragazzi nei confronti dei loro insegnanti, vale per gli insegnanti nei confronti dei loro formatori … e così via; mentre in sostituzione dello spiegare e del capire si installa rapidamente, a tutti i livelli, la micidiale routine del far- finta-di: di spiegare, di capire, di “certificare” il capire, e così via. Alla loro radice, spiegare e capire sono d’altra parte legati da una condizione di reciproca risonanza, appoggiata al contesto insieme concreto-e-culturale (di azioni e discorsi, di fatti e possibilità … e così via) al cui interno avviene questo tipo di interazione così esclusivamente umana. (E come si può imparare ad accorgersi se “ci si capisce” o no, si può bene imparare ad accorgersi se “ci si spiega” o no).
Ma perché si arrivi alla risonanza è necessario che sia chi deve (cerca di) spiegare, sia chi deve (cerca di) capire in qualche modo si “espongano” ciascuno all’altro, mettendo in gioco le “versioni” personali delle strutture di conoscenza e motivazione che lo spiegare/capire stesso di per sé coinvolge. In una parola, è necessario che chi (forse) spiega e chi (forse) capisce si fidino: sia uno dell’altro; sia del contesto in cui avviene l’interazione; sia - soprattutto - della possibilità stessa che attraverso l’inter-mediazione culturale qualche aspetto dei fatti o del modo di vederli possa essere alla fine controllato meglio. (Spesso si passano anni “esercitandosi” a “risolvere problemi”: ma se attraverso tanto tempo e tanta fatica si può arrivare a qualche tipo di condizionamento efficace, la strada del vero capire può restarne ostruita – troppo spesso bloccata, per sempre. E d’altra parte solo una vera e profonda esperienza di cosa vuol dire capire attraverso la mediazione di un altro può avviare a quel “capire da sé” appoggiandosi alla cultura che dovrebbe costituire l’obiettivo e l’esito di tutta l’impresa del fare-scuola).
<I padri hanno mangiato i frutti acerbi, e le bocche dei figli si sono allappate>. Sembra, quella biblica, una ben strana forma di causalità: ma dà una buona immagine del paradosso che troppo spesso inchioda in qualche modo le possibilità di crescita cognitiva dei nostri figli alle impossibilità di crescita a suo tempo sperimentate da noi che oggi li dovremmo aiutare a crescere. Si potrà mai rompere questo circolo vizioso?
Di fatto le difficoltà di interazione sperimentate in qualunque dinamica innovativa di “formazione” o “aggiornamento” di adulti, che sia attenta alla sua efficacia, rinviano spesso a un atteggiamento radicalmente aprioristico: <questi argomenti sono all’interno di un discorso che a suo tempo ho dovuto riconoscere come di per sé astrattamente arido, in sostanza incomprensibile, comunque privo di qualunque connessione con la mia esperienza di vita; quindi a maggior ragione li vedo come inutilizzabili per una prima formazione cognitiva, in quanto privi di qualunque plausibile “presa” sulla comprensione e l’interesse dei ragazzi fino a una certa età; quindi è una sostanziale perdita di tempi ed energie cercare di introdurli nell’ambito della scuola di base; …>. E contro questi apriori a quasi nulla vale opporre le evidenze della ricerca che testimoniano della necessità di nuovi approcci precoci ai principali nodi della trasmissione culturale.
Come si può superare il blocco? In modi, ormai sperimentati in situazioni diverse, che hanno una struttura sostanzialmente simile all’interno di una estrema flessibilità di aggiustamento alla specificità delle situazioni stesse. Proviamo a schematizzare alcuni degli ingredienti comunque coinvolti nell’ottenere una risonanza fra spiegare e capire, all’interno di ogni dinamica di comprensione e apprendimento:
i) Una ristrutturazione degli approcci disciplinari definita dal carattere di percorso cognitivo (percorso attraverso il tempo e i paesaggi) che condiziona ogni acquisizione e/o cambiamento dei modi di pensare (dei ragazzi come degli adulti): questo in alternativa alla diretta presentazione di regole finali dettate dalla sistematizzazione disciplinare. (Un manuale sistematico è ovviamente efficiente: ad uso però di chi abbia già capito e già imparato).
Tanto per intendersi: non è sensato (non è efficace né efficiente) spiegare, ad alcun livello, i fatti del mondo correlati al fare-forza partendo direttamente dalle “leggi di Newton”; e così via.
ii) Un sistematico aggancio sia all’esperienza-linguaggio-pensiero che è “comune” alle persone coinvolte (ovviamente diversa secondo i contesti); sia alla possibilità di “tradurre” (“trasferire”, “trasdurre”, …) ogni avanzamento di conoscenza in termini condivisi ed espliciti di esperienza concreta, di linguaggio-rappresentazione, di strategie di pensiero coinvolte (in analogia e/o contrasto rispetto ad altre). Tanto per intendersi: non è sensato (non è efficace né efficiente) escludere o “saltare” l’esperienza corporea (diciamo percettivo-motoria), in nessun argomento di scienze o matematica e a nessun livello; e così via
iii) Una sistematica, esplicita esperienza di riorganizzazione cognitiva dei (propri e altrui) modi di pensare-agire-parlare-interpretare-progettare …: esperienza che condiziona, dalla parte di chi deve imparare, la possibilità di <imparare a imparare>; e dalla parte di chi deve insegnare la possibilità di <imparare a insegnare>. Tanto per intendersi: le così(mal)dette “competenze” si possono riassumere nella possibilità di pensare, contemporaneamente flessibilmente e reversibilmente, in modi diversi – eventualmente adatti a situazioni diverse: cosa di fatto impossibile a chi sia allevato (o allevi altri) nella convinzione che i modi di pensare siano, comunque e univocamente, giusti o sbagliati; oppure scorrelati fra loro, come oggetti diversi in una ipotetica cassettiera.
iv) Una sistematica, esplicita esperienza di spiegare quello che si pensa su qualcosa, e come lo si pensa, a qualcun altro (incluse le cosiddette “lezioni frontali”, le cosiddette “risposte alle interrogazioni”, le cosiddette “interazioni fra pari” – adulti o ragazzi; e così via).
(Solo una domanda: come si confrontano queste ipotesi di strategia di insegnamento efficace e efficiente con quello che di fatto accade normalmente nelle “nostre” classi, o che di fatto è proposto dalla maggioranza dei “nostri” libri di testo?)
Resta il nodo cruciale. <Certo che sarebbe bello un fare-scuola fatto così: ma da un lato sarebbe molto difficile, con i mezzi a disposizione; da un altro, gli alunni non sarebbero probabilmente in grado di seguirlo; e comunque ci vorrebbe troppo tempo, in relazione sia alle ore di scuola che ai programmi da svolgere>.
Obiezione accolta. Non si può cambiare tutto in una volta (<natura non facit saltus> dicevano gli antichi).
Obiezione respinta. Si può cambiare, molto gradualmente ma con sicurezza: sia nel tempo (“in verticale”, si usa dire, in relazione alla crescita dei ragazzi) sia negli argomenti (“trasversalmente”, si usa dire, in relazione ai profondi intrecci fra discipline). E si può proprio perché ci si può convincere, gradualmente e in base all’esperienza diretta, che ci si può fidare di suggerimenti che siano stati verificati validi in situazioni diverse, e che siano abbastanza flessibili da potersi aggiustare a situazioni nuove. Ci si può fidare, nel momento stesso in cui si chiede fiducia – e così si può acquistare credibilità. Ci si può fidare del fatto che bambini e ragazzi vanno facilmente in risonanza, per comprensione e motivazione, con i percorsi di apprendimento che per loro (come per noi adulti) sono dotati di significato: percorsi cioè che attraverso il coinvolgimento diretto partono dall’esperienza di vita e la riorganizzano e sviluppano, permettendone un controllo sempre maggiore e raccordandola con continuità anche alle competenze culturalmente più sofisticate. Ci si può fidare del fatto che un investimento più lento e approfondito nella comprensione e motivazione iniziale può essere largamente recuperato nel tempo e valorizzato negli sviluppi successivi (soprattutto in quelli oltre la scuola dell’obbligo, se si sa interagire bene fra colleghi). Ci si può fidare del fatto, infine, che una nuova comprensione adulta sia di quello che si “deve” spiegare e insegnare, sia di come “funzionano” le persone che devono capire e imparare, porta ad un salto di motivazione e soddisfazione (quindi a un salto di qualità) nella professionalità docente. (Alla fine di questo lavoro-insieme vorremmo solo suggerire, a bassa voce: provare per credere).
Ovviamente “poi” restano tutti gli altri problemi: le relazioni con i colleghi, i genitori, i dirigenti …; le relazioni con i vincoli al contorno, dagli orari ai libri di testo, dalle attrezzature alle prove INVALSI …; i rapporti problematici con le “novità del mondo”, fuori e dentro la scuola
…; e così via. Però diventa possibile affrontare le difficoltà delle relazioni, le assurdità dei vincoli, lo sconcerto delle novità … in modo diverso: insieme, innanzitutto; e comunque con una riacquistata consapevolezza del valore insostituibile del proprio lavoro didattico che sola può “fare la differenza”. Mentre resta comunque vero che (come sempre, a tutti i livelli) per cominciare, per cambiare, per cominciare a cambiare <all’inizio bisogna un po’ buttarsi>. E che niente che riguarda lo spiegare e il capire può essere mai offerto-accettato come predefinito e garantito (automatizzato, diciamo), in grande o in piccolo: per fortuna la prima trasmissione culturale (come la stessa trasmissione della vita) si basa ancora sulle creatività e sulle responsabilità che sono caratteristiche dell’interazione fra individui umani.
Così abbiamo pensato che per dare visibilità/discutibilità a questi modi di vedere possa essere utile offrire un “assaggio” del modo in cui, per un paio d’anni, abbiamo cercato di (pre)occuparci in concreto <dell’avvenire delle nostre scuole>. Per questo abbiamo scelto quattro (sotto)contesti specifici fra quelli su cui si è lavorato, decidendo di associare a ciascuno di questi un breve “schizzo teorico” che possa dare un’idea dell’approccio disciplinare e cognitivo coinvolto, e un breve “schizzo pratico” che possa dare un’idea di come un modo di vedere le cose possa diventare un modo di aiutare bambini e ragazzi a crescere in comprensione e motivazione. Resta comunque ovvio che qualunque itinerario efficace di formazione, per gli adulti come per i ragazzi, non può affidarsi alla schematicità di queste poche pagine.
I quattro contesti “esemplari” di lavoro disciplinare cognitivo e didattico presentati nei prossimi capitoli, da I a IV, sono dunque:
“Regole per i puri numeri” - in particolare, relazioni fra gruppi di numeri consecutivi “Regole per il fare-forza” - in particolare, relazioni fra il fare-forza corporeo e quello degli oggetti
“Regole per il galleggiamento” - in particolare, relazioni fra gli aspetti “fattuali” e formali
“Regole per le cose che si sciolgono” - in particolare, relazioni fra gli aspetti “fattuali” e formali
Nei primi due contesti si lavora su situazioni che possono apparire, ad un’analisi superficiale, quasi esclusivamente matematiche o quasi esclusivamente fenomenologiche. In realtà il profondo intreccio fra pensiero (strategia-spiegazione), esperienza (percezione-azione) e linguaggio (o rappresentazione) che si trova alla base di ogni conoscere emerge all’evidenza di una riflessione appena attenta, e coinvolge a fondo adulti e bambini.
Negli altri due contesti, invece, le situazioni di lavoro sono tali da imporre di per sé all’evidenza che <senza i numeri non si capisce, ma anche senza le cose che succedono non si capisce>: qui infatti aspetti formali e aspetti fattuali emergono insieme, profondamente intrecciati, dall’esperienza primaria di “come va” il mondo e di “come va” la nostra testa; e il lavoro di formazione culturale (adulta e in sviluppo) consiste proprio nell’insegnare/imparare a vedere tali aspetti, distinguerli, reintrecciarli fra loro, “scoprirli” in configurazioni diverse in situazioni nuove, … <e così via all’infinito>.
(Tenere presente che sia le brevi presentazioni “teoriche” sia i brevi rendiconti di lavoro degli insegnanti sono stati scritti senza aver definito un criterio comune apriori, e comunque utilizzando anche spunti e suggerimenti emersi in situazioni diverse ada quelle a cui si fa esplicito riferimento).
Un commento a proposito della parola regole (e delle immagini che la parola stessa può evocare). Sul fatto che l’educazione “scientifica” (in senso lato), proprio per la sua insistenza sull’idea di “regole” (leggi e principi, dogmi e teoremi … e/o quantaltro), possa svolgere un ruolo “repressivo, inaridente, mortificante la creatività … ” nella formazione del pensiero umano, si sono versati fiumi di inchiostro (e si sono prese e propagate solenni sbornie mentali).
Senza farla lunga, l’idea che guida questo tipo di lavoro con adulti e bambini può essere grosso modo schematizzata così. E’ solo evidente che la nostra “libertà” di agire e pensare (parlare …) è in realtà limitata da ultrapotenti “vincoli” esterni e interni (per giunta correlati tra loro). Le regole del fare-forza, solo per esempio, vincolano i nostri modi di scendere le scale (al passo, di corsa, facendo gli scalini a due a due …) senza cadere, i nostri modi di usare un coltello (di taglio, di punta, …) senza farci male, i nostri modi di costruire un ponte (di pietre, di legno, di ferro, …) senza che crolli, … e così via. Così come le regole dei puri numeri vincolano i nostri modi di progettare, eseguire, interpretare azioni (interne ed esterne) utilizzando schemi di ragionamento “astratto” che a tali azioni si adattino con efficacia …. E così via. A questo punto è cruciale accorgersi che poter controllare (riconoscere, e utilizzare per propri scopi) i vincoli specifici imposti da un contesto, in maniera indipendente dal contesto stesso (cioè in maniera “astratta”, quindi “autonoma” da eventuali condizionamenti acquisiti nel contesto stesso, quindi “trasferibile” ad altri contesti), costituisce una stupefacente conquista della creatività umana: sia a livello di progressiva e accidentata evoluzione culturale, sia a livello di progressiva e accidentata crescita individuale. Mentre l’altra faccia della stessa creatività coincide appunto con la capacità di utilizzare in modo produttivo e sempre rinnovato quelle variegate combinazioni di vincoli che, pur nelle loro crescenti complessità, sono la chiave stessa di una
<costruzione sociale della realtà>. Entrare fin dall’inizio dello sviluppo cognitivo in questa “logica” del capire e dell’imparare in ambito “scientifico” è possibile e vitale per tutti – si può ben dire che è un fondamentale diritto di tutti: mentre è appunto compito della Scuola renderne possibile e garantirne la realizzazione.
(Vengono in mente a questo proposito le osservazioni, fra loro complementari, di due vecchi Saggi. Di Dewey, secondo cui una scuola che non sa prendere a suo prototipo-modello la competenza-di-vita-nel- mondo che i ragazzi di ogni età portano comunque con sé, e a suo obiettivo esplicito l’accrescimento consapevole della stessa competenza, è una scuola senza significato e senza prospettiva di futuro. Di Bruner, che alla scuola di ogni livello propone, come obiettivo della mediazione educativa, per una metà del tempo la presa di coscienza di come di fatto va il mondo, per l’altra metà la capacità di usare in modo <creativo> di tale acquisizione (con la notazione che anche la creatività può/deve essere insegnata e appresa).
Un’ultima osservazione. In ambito “scientifico” in senso lato non si dovrebbe parlare altro, “fin dalla più tenera età”, che di modelli - non si dovrebbe cioè parlare in termini di cosa/come sono le cose (le forze, i numeri, … i modi di pensare …) ma di cosa/come noi possiamo pensare che potrebbero essere, in modo che i nostri modi di pensare si rivelino coerenti e efficaci sia in relazione ai fatti del mondo, sia nei loro rapporti reciproci. <E’ come se …>. Come se le parti piccole di zucchero, che pure non si vedono, fossero tutte sparse in mezzo alle parti piccole dell’acqua; come se preferissero separarsi dalle altre parti piccole di zucchero per infilarsi in mezzo a quelle dell’acqua; come se a un certo punto non trovassero più posto abbastanza negli spazi dell’acqua che c’è …; come se fossero obbligate dalle regole dei numeri (che dicono quanto zucchero e quanta acqua ci sono) a fare esattamente quello che fanno… (E chi non è in grado di restarne stupito e affascinato ha già perso per strada un bel po’ della sua “creatività”).
Sarebbe, questo, un discorso complesso e fondamentale sul capire umano. Ma per ora finiamo qui.
Questa che doveva essere una introduzione al racconto di qualche esempio del nostro lavoro “su” fare-scuola ne costituisce in realtà anche una specie di conclusione (provvisoria). Abbiamo infatti potuto constatare, pure attraverso tante inevitabili difficoltà, che quelli che qui sono stati presentati come criteri ispiratori dei modi di lavorare proposti sono stati in concreto confermati nella sostanza, e molto arricchiti nei particolari. A tutti i livelli. Quello che (ci) resta da fare è dunque andare avanti, sperando di trovare altri compagni di viaggio.