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Nero, precario e tartassato: il lavoro del giornalista, oggi

 

 

lavoro nero

Nero, precario e tartassato: il lavoro del giornalista, oggi

 

All’attenzione dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana

 

Vi scrivo in merito alla lettera da voi inviatami in cui mi si chiede di mostrarvi i compensi dell’attività giornalistica relativa al biennio 2016/2017.

 

Non ho compensi da mostrarvi, né ho scritto su testate o quotidiani registrati presso il Tribunale competente, né ho preso parte a trasmissioni radiofoniche o televisive.

 

Vi dirò perché.

Ho scritto anni fa, sul Corriere della Versilia, che mi ha permesso di prendere il tesserino da giornalista, su Liberazione e su un mensile di Milano, Valori

Il Corriere della Versilia, prima che chiudesse, pagava 120 euro netti al mese, dopo aver firmato un foglio di tre righe in cui dichiaravo che accettavo l’arbitrarietà e la discrezionalità di eventuali pagamenti per i miei articoli. Ma ero all’inizio, bisogna sudarseli gli obiettivi. Avevo 26, 27, 28 anni, facevo quindi il cameriere e il barista, al nero, a Viareggio, d’estate, e davo una mano ad un mio amico in un’officina metalmeccanica, al nero, in inverno, per la dignità di non chiedere nulla alla mia famiglia. Nel frattempo mi sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali al biennio di specializzazione. Titolo questo della laurea che negli anni a seguire, cercando lavoro, ho pure dovuto omettere nel c.v, quasi fosse un’infamia, perché, nell’ampio ventaglio di lavori verso cui mi proponevo, alcuni di questi privilegiavano figure meno formate, vedi bagnino, postino, volantinaggio, pena l’esclusione, perché si è soliti ritenere che una persona meno “acculturata” si lamenterà meno nella giungla dei diritti mancati, perché ha meno cognizione di questi diritti o non sa come difenderli.

Gli anni passano, arriva finalmente il tesserino. Continuo a scrivere, con Scienze Politiche non sei né carne né pesce, allora lavoro alla tesi un anno, per avere un buon biglietto da visita nel mondo del post-università. Un lavoro complesso sul tema delle stragi del ‘92/’93, quando ancora, nel 2009, la “Trattativa” era argomento riservato agli specialisti del settore.

Devo il mio eterno ringraziamento alla Signora Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione di Via dei Georgofili per la possibilità che mi fu data e al mio professore di tesi, Alberto Vannucci, per la disponibilità nell’accompagnarmi, se nell’aprile di quell’anno, per l’anniversario della morte del magistrato Chelazzi che si occupò della strage nelle aule di tribunale, ho potuto presentare la mia tesi nell’aula bunker di Firenze, davanti a magistrati e giornalisti. Merito anche mio però, credo, in quanto ritengo che non venga presentata qualsiasi baggianata in un contesto simile.

Fu lì che potei cominciare una collaborazione con Liberazione, grazie a due giornalisti presenti, il cui direttore di allora, Dino Greco, perlomeno fu onesto fin da subito, “siamo messi male, ti pubblichiamo, ma non possiamo pagarti”. Accettai, “la mia firma sarà vista da Bolzano a Palermo”, pensai, “è una buona occasione”. Scrissi per più di un anno, un’intervista a Ingroia, un articolo sulla riapertura del processo per la strage di via d’Amelio, un pezzo sull’intervento dell’allora segretario di Rifondazione alla Festa dell’Unità a Rosignano, pagandomi autostrada e benzina. E molte sono state le pagine che Liberazione mi diede da riempire sulla sciagura dell’incidente ferroviario di Viareggio.

Risale a quel periodo un mio lungo articolo, ad un anno dal terremoto in Abruzzo, nel 2010, sulla situazione post-sisma, apparso sul mensile Valori, che devo riconoscere pagò secondo quanto pattuito e nei tempi previsti.

Ma scrivere impegna tempo, specialmente se lo si vuol far bene. E non ci si mantiene scrivendo soltanto per un mensile, perché le bollette vanno pagate, di sola aria non ci si può cibare e a 30 anni ormai compiuti la dignità era ancora più importante da difendere. Quindi ancora lavori stagionali, poche le ore assicurate se va bene, quando addirittura non pagate, e altre esperienze lavorative nelle quali sei costretto a travestirti da squalo e pressare le persone a firmare contratti telefonici e/o simili rintontendole, altrimenti se hai un attimo di sensibilità verso chi avrebbe diritto soltanto a vivere la vecchiaia serenamente, lasci perdere dopo tre giorni di numero, come ho fatto.

Allora provi l’estero, ad andare via, l’Italia fa schifo, lo dicono tutti, specialmente chi non se ne va.

Vai lontano, dall’altra parte del mondo, trovi una radio in cui ti danno voce, in amicizia, ed è una bellissima esperienza, ma poi la radio chiude, e comunque anche questa era un hobby, perché non pagavano, ma era chiaro fin dall’inizio, nessuno lì dentro era stipendiato, solo passione, ma proprio per questo il lavoro di ognuno prima porta via il tempo necessario per curare la radio, poi, complice anche la vita che cambia repentinamente, l’esperienza, bellissima, finisce.

Torni, dopo due anni, in Italia, che sarebbe il paese più bello del mondo, se non fosse lasciato andare a rotoli. Torni per vari motivi, personali e al di sopra di te. Ma torni anche perché da una parte ne hai nostalgia, dei tuoi amici, di casa, del mare d’estate, delle cose semplici, da cui uno magari è anche scappato, e che da lontano rivaluti, selezioni, scegli, accetti, riprovi, immagini un approccio diverso, ri- speri, e il tempo intanto è ancora passato di nuovo. Ma è vita e va bene.

Ma i soldi scarseggiano e si prendono le prime cose che arrivano, lavori mal pagati, sempre in nero, guai però a mancare, ad arrivare cinque minuti in ritardo quando è normale andarsene sempre due ore dopo e venire pagati la metà di quanto ti spetta.

Pensi che vorresti tornare a scrivere, di materiale nella quotidianità su cui farlo di certo non manca, ma il sole ti cuoce e la sera non hai nemmeno tempo di pensare che crolli.

L’inverno è triste e grigio, c’è l’occasione del Premio Ennio Macconi, la provi con entusiasmo ed ancor più con entusiasmo ricevi la telefonata da Firenze in cui ti si dice che sei tra i vincitori.

Il pomeriggio e la serata a Firenze, gennaio 2016, un po’ di soddisfazione personale. Si rialza un po’ l’autostima. Allora mandi nuovamente curriculum cercando in quel settore, ti proponi con idee, ma nessuno risponde, quasi mai.

Poi un bar di amici ha bisogno di qualcuno e accetti volentieri, “almeno lavorerò in un ambiente più sereno”, pensi, e così è, ma anche loro sono in difficoltà e allora non ti lasci sfuggire una soffiata da una cara amica, “dove lavoro cercano un bagnino la mattina”, “benissimo! Grazie!”. E così ti ritrovi per quattro mesi a lavorare 16 ore al giorno, due lavori, per tamponare il nulla delle entrare invernali. Avresti voglia di scrivere, ma quando, e come? Trovi il tempo per collaborare con la rivista “Documenti e studi”, dell’Istituto della Resistenza di Lucca, che ti pubblica, ma è una stilla in un mare ormai prosciugato.

Continui a scrivere, per te, sempre e da sempre, perché non ne puoi fare a meno e perché ti rimette in contatto con il tuo io, ma i giornali, le testate, l’intervista sul campo sono tutte cose lontane ormai.

Passa il tempo, cerchi lavori più sicuri, “migliori”, ma non arrivano, frequenti però i corsi di aggiornamento, l’Ordine te lo ricorda, lo prevede la legge, e allora arrivi fino a Siena, a Genova, spendendo soldi e tempo, e poi ti accorgi che solo la metà sono ben fatti e vale la pena seguirli, inoltre la metà dei presenti spesso dorme, si porta avanti con il lavoro sul proprio pc, giochicchia con il cellulare, ne intuisci il non senso.

Il resto è storia presente, dopo l’ennesimo lavoro stagionale, al nero ancora una volta, a 35 anni, ne trovi uno per l’autunno/inverno, ma con i soldi che ti danno nemmeno ti ci ripaghi la benzina per fare i 25 km ad andare e altrettanti per tornare. Ti chiedi se la spesa vale l’impresa. Ed è brutto, perché se è vero che non si campa di aria, essere pagati dignitosamente è anche un riconoscimento per il lavoro svolto, che ho sempre fatto con coscienza.

Sotto Natale arriva la vostra lettera, il termine tassativo è il 31 gennaio, e non è un caso che abbia aspettato oggi a scrivervi. Mi si intima, per legge, di mandare cud o altra relativa documentazione fiscale equivalente, pena l’esclusione dall’albo.

L’iscrizione all’albo mi è costata svariate centinaia di euro a suo tempo e ogni anno vi ho dato un foglio da 100 per il rinnovo, da otto anni a questa parte. Non ho versato un soldo nel (nostro?) vostro fondo pensione, chi la vedrà mai una pensione? Con quali soldi, e per cosa se l’attività giornalistica non paga? È per questo che avete mandato la lettera a me e non ad altri, come ho avuto modo di appurare? È perché vi risulta il mio scarso apporto economico?

E da un punto di vista meramente economico, cosa avete fatto voi come Ordine per tutelare le centinaia di persone che scrivono sottopagate o addirittura non pagate per sperare un giorno di ottenere uno stipendio decente e un contratto regolare? Quante volte avete mai alzato la voce sulla più totale inosservanza, da parte dei (nostri?) vostri colleghi, del tariffario di riferimento che prevede per tot cartelle di articolo tot euro? Cosa avete fatto per denunciare la pratica diffusissima del lavoro in nero anche in questo settore?

Adesso mi risponderete che vi dispiace molto, ma giornalista è chi scrive e quindi non scrivendo devo restituirvi il tesserino. Se vi ho elencato sinteticamente la mia storia lavorativa non è stato per farvi impietosire, figuriamoci se questo era il mio intento, ma per farvi capire che se il mondo del giornalismo funzionasse meglio, tante persone potrebbero continuare a scrivere. Conosco un ragazzo che ha fatto questo lavoro per anni, con contratti ridicoli di libera collaborazione, una persona valida professionalmente e una buona penna, quando ha dovuto sostituire una collega per maternità ha ottenuto un contratto, dopo dieci anni che lavorava per il solito giornale; quando la collega è tornata, con lei è tornata la libera collaborazione. Adesso quel ragazzo lavora come cameriere in un ristorante.

Mentre voi vi arroccate a presiedere e a difendere i diritti di un ordine auto-referenziale e miope verso la realtà esterna (e interna!) che lo circonda, non vi rendete conto di come il giornalismo in Italia, tranne rari casi illuminati, sia ormai un polpettone di porta voce della politica, o di persone che si dilettano in prove di mero stile.

Mentre intimate a norma di legge l’espulsione dagli elenchi, intorno a voi la realtà è cambiata e a voi non rimane che conteggiare chi versa i soldi nei fondi pensione e a ritenere, secondo i vostri criteri, che si è giornalisti non solo se si scrive, ma se si viene anche pagati.

La passione per la scrittura non me la togliete voi riprendendovi il tesserino che in questi anni mi è costato tanti soldi sudati. Avere il tesserino era un intimo vanto per me, sì, c’era del narcisismo forse, era qualcosa che mi ricordava che c’era stato un momento in passato in cui avevo creduto di poter lavorare in questo campo. E rappresentava, ancora oggi, il viatico per poter rientrare prima o poi, magari part-time se un domani ce l’avessi fatta ad avere un’entrata sicura, nel cosiddetto mondo della carta stampata. Motivo per cui, per la prima volta dal 2010, senza aver mai pagato una volta la mora, non ho versato gli euro per il rinnovo, anche perché quelli sì ve li saresti tenuti, senza restituirli.

Quindi signori buona fortuna per tutto, riprendetevi pure il tesserino; a questo pensiero prima me ne ero dispiaciuto, adesso mi sento molto più leggero.

 

Non confidando in una vostra risposta,

 

arrivederci.

 

Lorenzo Coluccini

 

 


 

 

Nero, precario e tartassato: il lavoro del giornalista, oggi

 

All’attenzione dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana

 

Vi scrivo in merito alla lettera da voi inviatami in cui mi si chiede di mostrarvi i compensi dell’attività giornalistica relativa al biennio 2016/2017.

 

Non ho compensi da mostrarvi, né ho scritto su testate o quotidiani registrati presso il Tribunale competente, né ho preso parte a trasmissioni radiofoniche o televisive.

 

Vi dirò perché.

Ho scritto anni fa, sul Corriere della Versilia, che mi ha permesso di prendere il tesserino da giornalista, su Liberazione e su un mensile di Milano, Valori

Il Corriere della Versilia, prima che chiudesse, pagava 120 euro netti al mese, dopo aver firmato un foglio di tre righe in cui dichiaravo che accettavo l’arbitrarietà e la discrezionalità di eventuali pagamenti per i miei articoli. Ma ero all’inizio, bisogna sudarseli gli obiettivi. Avevo 26, 27, 28 anni, facevo quindi il cameriere e il barista, al nero, a Viareggio, d’estate, e davo una mano ad un mio amico in un’officina metalmeccanica, al nero, in inverno, per la dignità di non chiedere nulla alla mia famiglia. Nel frattempo mi sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali al biennio di specializzazione. Titolo questo della laurea che negli anni a seguire, cercando lavoro, ho pure dovuto omettere nel c.v, quasi fosse un’infamia, perché, nell’ampio ventaglio di lavori verso cui mi proponevo, alcuni di questi privilegiavano figure meno formate, vedi bagnino, postino, volantinaggio, pena l’esclusione, perché si è soliti ritenere che una persona meno “acculturata” si lamenterà meno nella giungla dei diritti mancati, perché ha meno cognizione di questi diritti o non sa come difenderli.

Gli anni passano, arriva finalmente il tesserino. Continuo a scrivere, con Scienze Politiche non sei né carne né pesce, allora lavoro alla tesi un anno, per avere un buon biglietto da visita nel mondo del post-università. Un lavoro complesso sul tema delle stragi del ‘92/’93, quando ancora, nel 2009, la “Trattativa” era argomento riservato agli specialisti del settore.

Devo il mio eterno ringraziamento alla Signora Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’Associazione di Via dei Georgofili per la possibilità che mi fu data e al mio professore di tesi, Alberto Vannucci, per la disponibilità nell’accompagnarmi, se nell’aprile di quell’anno, per l’anniversario della morte del magistrato Chelazzi che si occupò della strage nelle aule di tribunale, ho potuto presentare la mia tesi nell’aula bunker di Firenze, davanti a magistrati e giornalisti. Merito anche mio però, credo, in quanto ritengo che non venga presentata qualsiasi baggianata in un contesto simile.

Fu lì che potei cominciare una collaborazione con Liberazione, grazie a due giornalisti presenti, il cui direttore di allora, Dino Greco, perlomeno fu onesto fin da subito, “siamo messi male, ti pubblichiamo, ma non possiamo pagarti”. Accettai, “la mia firma sarà vista da Bolzano a Palermo”, pensai, “è una buona occasione”. Scrissi per più di un anno, un’intervista a Ingroia, un articolo sulla riapertura del processo per la strage di via d’Amelio, un pezzo sull’intervento dell’allora segretario di Rifondazione alla Festa dell’Unità a Rosignano, pagandomi autostrada e benzina. E molte sono state le pagine che Liberazione mi diede da riempire sulla sciagura dell’incidente ferroviario di Viareggio.

Risale a quel periodo un mio lungo articolo, ad un anno dal terremoto in Abruzzo, nel 2010, sulla situazione post-sisma, apparso sul mensile Valori, che devo riconoscere pagò secondo quanto pattuito e nei tempi previsti.

Ma scrivere impegna tempo, specialmente se lo si vuol far bene. E non ci si mantiene scrivendo soltanto per un mensile, perché le bollette vanno pagate, di sola aria non ci si può cibare e a 30 anni ormai compiuti la dignità era ancora più importante da difendere. Quindi ancora lavori stagionali, poche le ore assicurate se va bene, quando addirittura non pagate, e altre esperienze lavorative nelle quali sei costretto a travestirti da squalo e pressare le persone a firmare contratti telefonici e/o simili rintontendole, altrimenti se hai un attimo di sensibilità verso chi avrebbe diritto soltanto a vivere la vecchiaia serenamente, lasci perdere dopo tre giorni di numero, come ho fatto.

Allora provi l’estero, ad andare via, l’Italia fa schifo, lo dicono tutti, specialmente chi non se ne va.

Vai lontano, dall’altra parte del mondo, trovi una radio in cui ti danno voce, in amicizia, ed è una bellissima esperienza, ma poi la radio chiude, e comunque anche questa era un hobby, perché non pagavano, ma era chiaro fin dall’inizio, nessuno lì dentro era stipendiato, solo passione, ma proprio per questo il lavoro di ognuno prima porta via il tempo necessario per curare la radio, poi, complice anche la vita che cambia repentinamente, l’esperienza, bellissima, finisce.

Torni, dopo due anni, in Italia, che sarebbe il paese più bello del mondo, se non fosse lasciato andare a rotoli. Torni per vari motivi, personali e al di sopra di te. Ma torni anche perché da una parte ne hai nostalgia, dei tuoi amici, di casa, del mare d’estate, delle cose semplici, da cui uno magari è anche scappato, e che da lontano rivaluti, selezioni, scegli, accetti, riprovi, immagini un approccio diverso, ri- speri, e il tempo intanto è ancora passato di nuovo. Ma è vita e va bene.

Ma i soldi scarseggiano e si prendono le prime cose che arrivano, lavori mal pagati, sempre in nero, guai però a mancare, ad arrivare cinque minuti in ritardo quando è normale andarsene sempre due ore dopo e venire pagati la metà di quanto ti spetta.

Pensi che vorresti tornare a scrivere, di materiale nella quotidianità su cui farlo di certo non manca, ma il sole ti cuoce e la sera non hai nemmeno tempo di pensare che crolli.

L’inverno è triste e grigio, c’è l’occasione del Premio Ennio Macconi, la provi con entusiasmo ed ancor più con entusiasmo ricevi la telefonata da Firenze in cui ti si dice che sei tra i vincitori.

Il pomeriggio e la serata a Firenze, gennaio 2016, un po’ di soddisfazione personale. Si rialza un po’ l’autostima. Allora mandi nuovamente curriculum cercando in quel settore, ti proponi con idee, ma nessuno risponde, quasi mai.

Poi un bar di amici ha bisogno di qualcuno e accetti volentieri, “almeno lavorerò in un ambiente più sereno”, pensi, e così è, ma anche loro sono in difficoltà e allora non ti lasci sfuggire una soffiata da una cara amica, “dove lavoro cercano un bagnino la mattina”, “benissimo! Grazie!”. E così ti ritrovi per quattro mesi a lavorare 16 ore al giorno, due lavori, per tamponare il nulla delle entrare invernali. Avresti voglia di scrivere, ma quando, e come? Trovi il tempo per collaborare con la rivista “Documenti e studi”, dell’Istituto della Resistenza di Lucca, che ti pubblica, ma è una stilla in un mare ormai prosciugato.

Continui a scrivere, per te, sempre e da sempre, perché non ne puoi fare a meno e perché ti rimette in contatto con il tuo io, ma i giornali, le testate, l’intervista sul campo sono tutte cose lontane ormai.

Passa il tempo, cerchi lavori più sicuri, “migliori”, ma non arrivano, frequenti però i corsi di aggiornamento, l’Ordine te lo ricorda, lo prevede la legge, e allora arrivi fino a Siena, a Genova, spendendo soldi e tempo, e poi ti accorgi che solo la metà sono ben fatti e vale la pena seguirli, inoltre la metà dei presenti spesso dorme, si porta avanti con il lavoro sul proprio pc, giochicchia con il cellulare, ne intuisci il non senso.

Il resto è storia presente, dopo l’ennesimo lavoro stagionale, al nero ancora una volta, a 35 anni, ne trovi uno per l’autunno/inverno, ma con i soldi che ti danno nemmeno ti ci ripaghi la benzina per fare i 25 km ad andare e altrettanti per tornare. Ti chiedi se la spesa vale l’impresa. Ed è brutto, perché se è vero che non si campa di aria, essere pagati dignitosamente è anche un riconoscimento per il lavoro svolto, che ho sempre fatto con coscienza.

Sotto Natale arriva la vostra lettera, il termine tassativo è il 31 gennaio, e non è un caso che abbia aspettato oggi a scrivervi. Mi si intima, per legge, di mandare cud o altra relativa documentazione fiscale equivalente, pena l’esclusione dall’albo.

L’iscrizione all’albo mi è costata svariate centinaia di euro a suo tempo e ogni anno vi ho dato un foglio da 100 per il rinnovo, da otto anni a questa parte. Non ho versato un soldo nel (nostro?) vostro fondo pensione, chi la vedrà mai una pensione? Con quali soldi, e per cosa se l’attività giornalistica non paga? È per questo che avete mandato la lettera a me e non ad altri, come ho avuto modo di appurare? È perché vi risulta il mio scarso apporto economico?

E da un punto di vista meramente economico, cosa avete fatto voi come Ordine per tutelare le centinaia di persone che scrivono sottopagate o addirittura non pagate per sperare un giorno di ottenere uno stipendio decente e un contratto regolare? Quante volte avete mai alzato la voce sulla più totale inosservanza, da parte dei (nostri?) vostri colleghi, del tariffario di riferimento che prevede per tot cartelle di articolo tot euro? Cosa avete fatto per denunciare la pratica diffusissima del lavoro in nero anche in questo settore?

Adesso mi risponderete che vi dispiace molto, ma giornalista è chi scrive e quindi non scrivendo devo restituirvi il tesserino. Se vi ho elencato sinteticamente la mia storia lavorativa non è stato per farvi impietosire, figuriamoci se questo era il mio intento, ma per farvi capire che se il mondo del giornalismo funzionasse meglio, tante persone potrebbero continuare a scrivere. Conosco un ragazzo che ha fatto questo lavoro per anni, con contratti ridicoli di libera collaborazione, una persona valida professionalmente e una buona penna, quando ha dovuto sostituire una collega per maternità ha ottenuto un contratto, dopo dieci anni che lavorava per il solito giornale; quando la collega è tornata, con lei è tornata la libera collaborazione. Adesso quel ragazzo lavora come cameriere in un ristorante.

Mentre voi vi arroccate a presiedere e a difendere i diritti di un ordine auto-referenziale e miope verso la realtà esterna (e interna!) che lo circonda, non vi rendete conto di come il giornalismo in Italia, tranne rari casi illuminati, sia ormai un polpettone di porta voce della politica, o di persone che si dilettano in prove di mero stile.

Mentre intimate a norma di legge l’espulsione dagli elenchi, intorno a voi la realtà è cambiata e a voi non rimane che conteggiare chi versa i soldi nei fondi pensione e a ritenere, secondo i vostri criteri, che si è giornalisti non solo se si scrive, ma se si viene anche pagati.

La passione per la scrittura non me la togliete voi riprendendovi il tesserino che in questi anni mi è costato tanti soldi sudati. Avere il tesserino era un intimo vanto per me, sì, c’era del narcisismo forse, era qualcosa che mi ricordava che c’era stato un momento in passato in cui avevo creduto di poter lavorare in questo campo. E rappresentava, ancora oggi, il viatico per poter rientrare prima o poi, magari part-time se un domani ce l’avessi fatta ad avere un’entrata sicura, nel cosiddetto mondo della carta stampata. Motivo per cui, per la prima volta dal 2010, senza aver mai pagato una volta la mora, non ho versato gli euro per il rinnovo, anche perché quelli sì ve li saresti tenuti, senza restituirli.

Quindi signori buona fortuna per tutto, riprendetevi pure il tesserino; a questo pensiero prima me ne ero dispiaciuto, adesso mi sento molto più leggero.

 

Non confidando in una vostra risposta,

 

arrivederci.

 

Lorenzo Coluccini