Formazione in servizio per i docenti di Scienze sperimentali
Le Scienze e la Scuola
Vincenzo Terreni
Il Museo di Scienze Naturali dell’Università di Pisa ospitato nella splendida Certosa di Calci ha organizzato e continua a programmare tre giorni densi di proposte didattiche studiate per i docenti della scuola dell’infanzia delle elementari e della secondaria di primo grado provenienti prevalentemente da scuole della provincia stessa. Il numero dei partecipanti è stato fissato in un massimo di 40 suddivisi più o meno ugualmente per ogni ordine di scuola. Il Museo è una struttura universitaria e quindi il servizio è pienamente riconosciuto dal Ministero e il pagamento della quota di iscrizione (circa 120 € comprendente pasto e caffè) può essere ritirato dai 500€ previsti per la formazione.
I tre giorni sono dedicati alla Zoologia, alla Botanica e infine alle Scienze della Terra. Il Museo si avvale di una ampia e consolidata esperienza di collaborazione con le scuole per studenti di ogni età, mediante laboratori specifici e scoperta del territorio con guide specializzate (prevalentemente sul Monte Pisano reventemente funestato da due incendi distruttivi).
Perché tutto questo impegno per aiutare i docenti di Scienze Naturali (e non solo perché nei primi ordini di scuola hanno anche la responsabilità non trascurabile di insegnare Matematica)?
La risposta è triste e immediata perché in tutti i rapporti sull’insegnamento scientifico in Italia si trovano esiti inequivocabili: non funziona almeno al confronto con decine e decine di Paesi che hanno crediti culturali neppure paragonabili ai nostri. Eppure si continua ad affermare che le nostre scuole sono eccellenti dato che i nostri laureati sono accolti all’estero molto bene e riescono ad ottenere delle posizioni di grande prestigio. “La scuola è di scarsa utilità salvo i rari casi fortunati in cui è assolutamente inutile” affermava un fisico a proposito della scuola americana, opinione forse esagerata, ma aiuta a comprendere i risultati deludenti di una macchina così imponente e costosa. Come si fa a sapere se un sistema funziona? Si fanno delle prove, prove che debbono essere chiare, immediate e non equivoche. Nel nostro paese affrontare un esame di questo tipo è un problema prima di tutto per gli insegnanti. Questi si sentono responsabili (e per certi versi lo sono) dei cattivi risultati che i loro alunni forniscono –nelle prove Invalsi per esempio. Per molti anni si è tentato di evitare questo ostacolo (anche per perplessità sulla formulazione di qualche quesito); ora sono state accettate/imposte e i risultati sono stati chiari (i mezzi di valutazione passano attraverso un’implacabile statistica): al Nord bene, al Centro benino, al Sud male nelle Isole un disastro. Ci sono eccezioni locali logicamente, ma le medie sono queste. Si lascia intendere che la responsabilità sia dei docenti e della loro formazione tralasciando una quantità enorme di variabili molte delle quali esulano dalla possibilità di intervento da parte dei soli docenti. È finito il tempo, peraltro non remotissimo, il cui il docente appena nominato in una scuola si ritrovava il registro in mano e le indicazioni del bidello per trovare la prima classe della sua vita lavorativa con cui farsi le ossa.
In questo, il problema della scarsa produttività dell’insegnamento, l’Università non ha dato mai segni di interesse concreto, la didattica e la pedagogia rimanevano territorio dei Magisteri che raramente si occupavano di Scienze sperimentali. I docenti che hanno sentito l’esigenza di una formazione specifica, magari in servizio, non hanno potuto far altro che rivolgersi a libri, associazioni, enti di varia natura e provenienza in grado di instradare il neofita alla sua difficile carriera. Difficilissimo, spesso quasi impossibile, ottenere una tesi per la laurea in Fisica, Chimica ed anche Scienze Naturali e Biologia in didattica disciplinare, addirittura non era neppure obbligatorio avere una laurea per insegnare alla scuola per l’infanzia e le elementari come se questi ordini di scuola fossero i meno importanti per l’apprendimento. Ora ormai è chiaro per tutti che sono invece decisivi per lo sviluppo intellettuale. Oggi le cose son cambiate e un docente non entra se non è laureato, non ha fatto il tirocinio e, spesso, non ha vinto un concorso. Ma poi i problemi, anche in questo caso continuano ad esserci perché la scuola è cambiata profondamente, un solo esempio: 30 anni fa trovare un vietnamita insieme ai 29 compagni di classe nati italiani, era un episodio raro, ora però di vietnamiti ce n’è un paio con una mezza dozzina di ragazzi di ogni colore, quasi pareggiano le presenze di origine autoctona, in alcune situazioni c’è un rapporto addirittura inverso. Il docente non può che prenderne atto e correre ai ripari facendo affidamento sulle risorse personali di tempo e fatica. Ma ci sono anche altre complesse criticità per organizzare il tempo scuola sulla base di programmi o indicazioni programmatiche di portata quasi globale in cui fare scelte è difficile anche per le tradizioni della scuola in cui si lavora che ha già indirizzi definiti a cui ci si deve piegare per non cominciar subito a dichiarar guerra al mondo.
Insomma fare il docente è sempre più difficile perché non basta conoscere la materia che si deve insegnare –non è mai stato sufficiente e rimane un presupposto imprescindibile- ma anche come si fa ad insegnare efficacemente per l’età di coloro che dovrebbero imparare. E su questo aspetto si dispiega la miriade di possibilità di offerte avanzate da un mondo variopinto di fondazioni, associazioni, enti, volontari, istituzioni che offrono di tutto in un panorama vastissimo, polverizzato in cui è difficile orientarsi. Il Ministero, a questa esigenza imprescindibile di formazione in servizio, ha risposto ritoccando la precedente pratica in vigore che si riassume telegraficamente in “…ovviamente at proprie spese compatibilmente esigenze servizio!” introducendo 500€ forfettari all’anno -senza entrar troppo nel merito delle specifiche dell’utilizzo- e lasciando immutate le esigenze di servizio aggirate solo con pratiche funamboliche. Bene un passo in avanti rispetto al nulla di una formazione in servizio clandestina. Ma rimangono problemi di sempre: a chi rivolgersi? Basta una conferenza o un ciclo di conferenze per insegnare sensatamente, occorre far pratica e come, con chi con quali garanzie, con quali benefici (magari anche economici)?
Specialmente per le discipline scientifiche si impongono formazioni che prevedano attività pratiche, osservazioni dirette dei fenomeni in studio adatti alle varie età degli studenti. Certo ci sono le indicazioni, ma sono appunto indicazioni non procedure codificate di percorsi. E poi, alla fine della attività prevista (spesso comprendente anche una parte in rete così da invadere anche spazi privati una volta inaccessibili), si dovrebbe procedere ad una indagine per capire quali siano stati i benefici culturali e comportamentali acquisiti in siffatta fatica. Nel lungo periodo, non solo per la completa qualificazione dei partecipanti, ma anche per la validazione del corso proposto bisognerebbe indagare su come le potenzialità ancora inespresse da parte dei partecipanti si son palesate attraverso la produzione di un percorso di lavoro adeguatamente rendicontato. Tutto ciò viene fatto? Non da tutti e non tutto allo stesso modo per cui i risultati veri di ogni attività di questo tipo sono basati su giudizi che non sempre riescono a portare dati oggettivi a loro sostegno. Mentre nel percorso di studi accademico le prove sono fissate: partecipazione ai corsi, studio conseguente e superamento delle prove di esame previste e poi tesi finale, i corsi di formazione in servizio seguono criteri diversi non sempre confrontabili tra loro e l’accreditamento da parte del Ministero sulla loro validità si basa su valutazioni non sempre facilmente comprensibili. Una cosa è certa: l’Università ha come finalità istituzionali la didattica, la ricerca e la formazione. La parte della formazione viene concretizzata spesso con conferenze divulgative corsi specifici per insegnanti e mille altri interventi di solito di ottima levatura. Quel che manca nell’Istituzione universitaria (ma è presente ed efficace in molti universitari, anche fuori ruolo che si dedicano personalmente alla didattica nelle scuole) è il controllo di qualità e di reale positività delle attività formative in servizio da parte dei docenti, un aspetto cruciale specialmente nel settore scientifico che rappresenta l’anello più debole dell’insegnamento in Italia
Quindi benissimo che l’Università si occupi istituzionalmente di formazione, ma occorre fare i conti con la realtà e le responsabilità istituzionali. Per insegnare è certo necessario conoscere bene la disciplina, ma non basta, l’insegnamento non è un'arte che si ha oppure di cui siamo privi, si tratta di un’altra abilità solidamente basata su conoscenze scientifiche certe messe in chiaro dalla neurofisiologia e questa si può e si deve apprendere prima di entrare in classe come docenti. Agli insegnanti affidiamo il futuro del paese e quindi devono essere riqualificati anche nel loro ruolo sociale se si vuole riportare la scuola a livelli accettabili di produttività. Sono intollerabili quanto indicativi gli episodi di violenza in classe perpetrata dagli alunni quasi sempre coperti dalle loro famiglie. È un segnale di degrado profondo ed inquietante che non si può trattare alla stregua di un becero bullismo: viene messo in crisi il valore stesso dell’educazione da parte dello Stato e questo nessuno Stato lo può permettere.
L’Università deve ritrovare se stessa e affrontare questo compito della formazione didattica con lo stesso impegno e rigore di quello disciplinare per studiare e rapidamente mettere a punto e in azione strumenti idonei di valididazione per comprendere quanto questo sforzo formativo sia stato utile e come riuscire a renderlo ancora più efficacie e diffuso in ogni ordine di scuole specialmente infanzia ed elementare.