Un medico-poeta: Giovanni Rajberti, tra Orazio e il Positivismo
Luciano Luciani
Tra i numerosi letterati italiani, che in tempi recenti e meno recenti, dal Rinascimento in poi, hanno saputo intrecciare la pagina scritta con il lavoro di cura - la medicina -, non si smemori il milanese Giovanni Rajberti (1805 - 1861). Prima alunno presso il seminario arcivescovile della capitale del Lombardo-Veneto, poi studente liceale fornito di una buona preparazione classica, si addottora presso l’università di Pavia con una tesi di laurea in lingua latina dal titolo De valeriana officinale eiusque specibus animadversio inauguralis. Di convinzioni liberali, subisce per gran parte della sua esistenza le attenzioni dell’occhiuto regime austriaco e della Imperiale Regia Censura della Polizia. Pressioni a cui è uso reagire pubblicando argute e bizzarre operine in versi dialettali milanesi che si ricollegano all’alta tradizione di Carlo Porta e in prosa, dove, senza parere, secondo i modi di un umorismo leggero e apparentemente distratto, non privo, però, di acute punte satiriche, critica lo stato di cose presenti. Più vicino a Orazio che alla ricca tradizione letteraria italiana dei poeti giocosi e burleschi, di lui meritano di essere ricordati e ancora letti: Il gatto. Cenni fisiologici e morali, 1845, in cui, osservato senza sentimentalismi, il felino più diffuso al mondo parla con l’uomo e gli offre non pochi utili consigli per vivere con più saggezza; L’arte del convitare spiegata al popolo, 1850/1851, definito dall’Autore come un frammmento di Galateo e “L’arte di stare col prossimo il meno male per sè e per gli altri, ossia l’arte di vivere in società”; El pover Pill, 1852, versi settenari ed endecasillabi in dialetto milanese per un elogio funebre in memoria del suo amato cane; Il viaggio di un ignorante ossia ricetta per gli ipocondriaci, 1857, pagine considerate le sue migliori. che raccontano di un viaggio compiuto a Parigi, occasione per contrapporre la Francia imperiale e autoritaria di Napoleone III all’Italia sperata che stava per nascere.
Primario chirurgo e direttore “facente funzione” presso l’ospedale di Monza nel 1842, dove rimase con qualche intervallo e non pochi contrasti sino al termine della vita, il Rajberti fu ostile alla nascente moda dell’omeopatia, contro la quale - si legga Il Volgo e la Medicina, 1838 - prende spesso posizione in difesa della medicina tradizionale e non nasconde la sua antipatia per Honoré de Balzac per la passione del romanziere francese per l’ipnotismo, altra grande moda di quegli anni. Razionale, dunque, il Rajberti, concreto, lontano dalle fumisticherie romantiche e tardo romantiche e già vicino alla sensibilità del positivismo.
Patriota con più di una punta di disincanto, soffre per la lontananza da Milano nel corso dell’insurrezione milanese della primavera del ‘48: un’assenza a cui cerca di
porre riparo con un poemetto, Il Marzo 1848, letto pubblicamente e con successo in più di un’occasione. Un comportamento che non lo rende certo popolare agli occhi degli Austriaci che, rientrati a Milano, lo ostacoleranno in ogni occasione nella possibilità di fare carriera come Rajberti avrebbe desiderato e meritato.
Apprezzato da letterati e politici anche di diverso orientamento - Manzoni e D’Azeglio, Cattaneo e Aleardi, Correnti e Arrighi -, collaboratore di giornali e riviste letterarie, prosegue nella sua battaglia per una sliricizzazione della poesia italiana che il nostro medico-poeta avrebbe voluto meno aulica, meno rarefatta, e più vicina alla lingua e ai bisogni espressivi del popolo.
Nel 1859 un feroce ictus cerebrale lo paralizza, impedendogli l’uso della parola e della scrittura.
Muore nel dicembre del 1861.