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Il medico molisano che scoprì la penicillina...

 

Targa sulla casa natale

Il medico molisano che scoprì la penicillina...

 

e che nessuno prese sul serio

 

Luciano Luciani

 

Mai arrivare troppo presto! Il più delle volte non si viene capiti. Oppure, quando non susciti incomprensioni o, peggio, invidie e gelosie, non manca mai qualcuno che avanza dubbi sulla tua liceità a essere giunto prima a capire quanto era sotto gli occhi di tutti, da secoli, ma che nessuno vedeva. Guardavano, forse, ma non ne realizzavano le implicazioni e le conseguenze per il bene collettivo: non discernevano, non distinguevano, non riconoscevano... Una pigrizia intellettuale a cui la maggioranza conformista vorrebbe, più spesso con le buone, non di rado anche con le cattive, costringere gli spiriti liberi e capaci di anticipare i tempi. È il caso del dott. Vincenzio Tiberio (1869 - 1915), un uomo del sud, un molisano, nato a Sepino, un colle che va già acquistando dignità di montagna a ridosso delle ultime propaggini meridionali dei monti del Matese. Nato esattamente  un secolo e mezzo fa, all’indomani di un’unità d’Italia tormentata e contraddittoria, in una terra percorsa da tardive velleità borboniche e le prime folate di un’anarchia tanto generosa quanto confusa, il piccolo Vincenzo può godere di una posizione sociale privilegiata per i luoghi e i tempi: il padre è il notaio del paese e questa condizione familiare favorita gli consente di frequentare le scuole superiori a Campobasso e poi di potersi iscrivere alla facoltà di medicina dell’università di Napoli, una sede tradizionalmente qualificata per gli studi scientifici. Per rendere più agevole la frequenza ai corsi si trasferisce ad Arzano, alle porte della città partenopea, presso dei parenti, i Graniero: è, insieme al cugino Giovanni, uno studente fuorisede. Le sue giornate si dividono tra gli impegni universitari, l’amore per la bellissima cugina Teresa Amalia, sposata più tardi e non senza difficoltà nel 1905, e l’osservazione minuta e curiosa del mondo contadino. Oggetto delle sue indagini il pozzo di casa Graniero, dalle superfici coperte di muffa: Vincenzo non può fare a meno di notare che, quando le pareti  della cavità vengono ripulite, quanti bevono quell’acqua presentano più o meno pesanti disturbi intestinali che scompaiono a mano a mano che la nuova muffa si riforma. Un potere battericida ben noto fin dall’antichità, quando i medici greci e romani erano soliti ricoprire, con una poltiglia di muffa, ulcere e ferite per impedire infezioni e  processi purulenti.

Su tale fenomeno le osservazioni del Tiberio sono pubblicate nel 1895, alcuni anni dopo la laurea, nell’articolo “Sugli estratti di alcune muffe”, apparso sulla rivista “Annali di Igiene sperimentale”, diretta dal professor Angelo Celli ed edita a Roma dalla casa editrice Loescher: un testo, tra l’altro, pubblicato sotto la supervisione dell’Istituto d’Igiene dell’università di Napoli, diretto da un’autorità in materia, il professor Vincenzo De Giaxa. Indagini e considerazioni, quelle di Tiberio, documentate e provate: infatti, non solo il giovane medico molisano isola i ceppi delle muffe, ma ne studia anche l’azione batterica e chemiotattica, ne verifica gli effetti sia in vitro, sia su cavie e conigli fino ad arrivare alla preparazione di una sostanza con effetti antibiotici. Quelle pagine, però, finiscono sugli scaffali di qualche istituto di medicina e più che i consensi del mondo accademico raccolgono via via la polvere degli anni.

 

Perché tanta disattenzione nei confronti di una novità che avrebbe potuto anticipare prassi curative di estrema importanza nella storia della medicina? Forse gioca un ruolo negativo la marginalità della ricerca scientifica italiana a fronte di quella di Stati europei di ben altro peso e tradizioni, la giovane età del ricercatore, la sua timidezza nel cercare convalide e ratifiche autorevoli in campo medico. E anche la sua irrequietezza di scienziato intriso di cultura positivista, nazionalismo, aspirazioni coloniali: un colto borghese meridionale all’alba del nuovo secolo e alla ricerca del suo posto nel mondo.

 

Fatto sta che il nostro Vincenzo, contrastato sul terreno della carriera accademica, contraddetto sul piano sentimentale dal rifiuto degli zii di fargli sposare la cugina, si arruola nel Corpo sanitario della Marina militare, lascia Napoli e gira il mondo. Nel 1896 è a Creta, perennemente agitata dal conflitto greco-turco. Fa parte di una spedizione internazionale che vede la presenza di tutte le potenze europee di allora; Germania, Austria, Inghilterra, Francia. Russia e Italia. È un brutto anno per il nostro Paese: la disastrosa sconfitta patita ad Adua (1 marzo) pone fine al primo tentativo coloniale dell’Italia e impatta pesantemente sulla politica interna, determinando le dimissioni di Francesco Crispi. Anche l’immagine internazionale dell’Italia ne risulta compromessa, riscattata dall’impegno e dai rilevanti risultati ottenuti da uomini come Tiberio che, nel suo ruolo di medico, svolge un’importante funzione per salvaguardare la salute della spedizione, dei suoi uomini e delle due comunità, la greca e la turca: ne fa fede una lettera d’encomio a lui rivolta da Eleutherios Venizelos, uno dei più importanti uomini politici della Grecia moderna. È l’inizio di una brillante carriera che Tiberio conduce con la divisa della Marina, che lo porterà sino al grado di Maggiore. Nel 1900 è in missione a Zanzibar; tra la fine del 1908 e gli inizi del 1909, segnalandosi per “operosità, coraggio, filantropia e abnegazione”, partecipa ai soccorsi delle città di Messina e Reggio Calabria devastate da un terribile terremoto-maremoto che provoca 150.000 vittime; nel 1912 è direttore del gabinetto batteriologico dell’Ospedale della Maddalena in Sardegna; nel 1913 è in Libia a Tobruk. Sempre attento a documentarsi, a studiare di volta in volta  gli ambienti in cui si trova a operare per migliorarne le condizioni materiali di vita dal punto di vista igienico, sanitario e della profilassi, muore d’infarto a soli 46 anni a Napoli, dove stava assumendo l’incarico direttore del gabinetto di batteriologia dell’Ospedale della Marina di Piedigrotta a Napoli nel 1915.

Siamo ormai per l’Italia alla vigilia della Grande Guerra: una vicenda in cui le sue muffe, se comprese in tutte le loro potenzialità, avrebbero potuto dare un formidabile contributo a salvare vite umane e ad alleviare le terribili sofferenze di quel conflitto...

 

Una modesta lapide nella sua Sepino lo ricorda come PRIMO NELLA SCIENZA POSTUMO NELLA FAMA.