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L'uomo è ciò che mangia

 

L'uomo è ciò che mangia 

L’uomo è ciò che mangia?

 

Homo sapiens e la sua dieta  

 

 

Maria Turchetto

 

 

L’uomo è cacciatore?

 

 

“L’uomo è cacciatore”, dice un luogo comune che, negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, tenne banco per un po’ anche negli studi di paleoantropologia, sulla base di un celebre lavoro di Raymond Dart [1] ripreso dal giornalista Robert Ardey [2]. Ardey coniò per i nostri antenati l’espressione “scimmia assassina”, suggerendo l’idea di un ancestrale progenitore capace di uccidere con le armi non soltanto gli animali, ma anche i suoi simili, come sembrava si potesse dedurre da alcune fratture craniche riscontrate nei fossili ominidi. L’idea fece presa nell’immaginario collettivo dell’epoca [3]: fu ripresa da Konrad Lorenz [4] e immortalata da Kubrick nella prima parte di 2001: Odissea nello spazio.

 Studi successivi ridimensionarono molto quest’idea. L’anatomista sudafricano Brain mostrò che i resti di ominidi su cui si basava l’ipotesi della “scimmia assassina” erano più probabilmente prede che predatori [5]. Si fece gradualmente strada l’idea che il genere Homo, ai suoi inizi, più che alla caccia si dedicasse allo scavenging, termine che possiamo tradurre con “sciacallaggio”, ossia a prelevare cibo da carcasse di animali già morti. Attività comunemente ritenuta meno nobile della caccia, ma che in realtà richiede l’uso di strumenti (percussori litici) per rompere le ossa lunghe e le scatole craniche onde estrarne midollo e cervello: nessun carnivoro – ad eccezione della iena – ce la fa coi soli denti e artigli.

 Dieta e cervello

 

 

 

 

 

 

Cacciatori o “sciacalli” che fossero, gli ominidi comparsi intorno a due milioni di anni fa avevano certamente una dieta onnivora e – di conseguenza – una interessante riconfigurazione degli organi interni.

 Questo aspetto, relativamente poco trattato negli studi sull’ominazione, negli anni ’90 è al centro degli studi di Aiello e Wheeler, che hanno formulato la cosiddetta Expensive Tissue Hypothesis (“ipotesi del tessuto costoso”) [6]. Questi autori propongono un confronto tra le proporzioni degli organi di un essere umano medio (observed) e di un primate supposto (expected) della stessa taglia: come si può osservare nella Fig. 1, l’uomo mostra un forte aumento delle dimensioni del cervello accompagnata da una forte riduzione dei tessuti intestinali.

 

 

figura 1 cervello e digerente


Fig. 1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Anche la conformazione scheletrica, in particolare della cassa toracica (Fig. 2), mostra del resto la differenza: la forma a imbuto rovesciato dei primati indica la presenza di un intestino di dimensioni relativamente grandi, mentre la forma a botte propria del genere Homo è il correlato scheletrico della riduzione dei tessuti gastrointestinali.

 

scheletro umano e di gorilla

Fig. 2

 

 

Cosa significa tutto questo? Significa, fondamentalmente, che la dieta è cambiata. La riduzione del tratto gastrointestinale testimonia l’integrazione del regime erbivoro e frugivoro con alimenti più facili da digerire e ad alta concentrazione di nutrienti, quali sono gli alimenti di origine animale. L’energia prima spesa nella costruzione e il mantenimento di un lungo e dispendioso apparato digerente – necessario per metabolizzare gli alimenti vegetali, più resistenti alla digestione – “libera” risorse per l’espandersi di un organo molto “costoso” in termini di calorie qual è il cervello. In altre parole, la dieta onnivora risulta funzionale alla forte encefalizzazione caratteristica del genere Homo.

 

Intendiamoci, non voglio affatto sostenere che i nostri antenati si siano dati al consumo di cibo di origine animale per diventare intelligenti, come suggerisce lo spassoso libro Il più grande uomo scimmia del Pleistocene [6]. Probabilmente, almeno inizialmente, gli ominidi cercavano soprattutto calorie per far fronte alle stagioni secche e alle carenze di vegetali. La più cospicua fonte di calorie nei tessuti animali è il grasso, estraibile dal midollo e dal cervello – il che collimerebbe con l’ipotesi dello “sciacallaggio”. Ma questo tipo di alimento è anche strettamente legato alle esigenze nutrizionali del cervello, soprattutto nella fase del suo sviluppo [7].

 

Secondo Aiello e Wheeler, si instaura, a questo punto, un circolo virtuoso: la nuova qualità del cibo promuove lo sviluppo del cervello e un cervello più sviluppato permette di affinare le strategie di estrazione del cibo di più alta qualità.

 

 

 

 

 

L’uomo “animale sociale”

 

 

A che scopo racconto queste cose? In primo luogo, per fare partecipi i lettori di alcuni aspetti dell’evoluzione umana poco noti, rimasti un po’ ai margini rispetto ad altre caratteristiche molto più trattate: l’andatura eretta, l’uso di strumenti, l’encefalizzazione. Tutti aspetti per altro correlati al cambiamento di dieta che qui ho voluto particolarmente valorizzare.

 

Gli studi che ho menzionato sembrano avvalorare un vecchio detto, attribuito al “materialismo volgare”: l’uomo è ciò che mangia. Tanto volgare, alla luce di questi studi, quel materialismo non è [8].

 

Ma non finisce qui, ovviamente. L’uomo è tante altre cose. Soprattutto, è un animale sociale. Non l’unico, certo. Ma è altamente sociale. E forse anche in questo la dieta ha la sua parte.

 

Per affrontare questo argomento devo – ma è un dovere cui volentieri mi sottopongo – svelarvi la fonte principale di questo mio articolo, sostanzialmente frutto di uno “sciacallaggio”: in linea con i nostri progenitori! Ho attinto a piene mani dal lavoro di un giovane studioso, Marco Pappalardo: alla sua tesi di laurea magistrale intitolata Quando la carne si fa verbo, presentata all’Università di Roma La Sapienza nell’a.a. 2008-2009. Il nostro giovane studioso è purtroppo andato perduto alla ricerca, a causa di orribili dinamiche accademiche cui troppo spesso si devono, nel nostro paese, gravissimi danni al patrimonio intellettuale. Avrei voluto fargli pubblicare un libro sull’argomento della tesi: ma l’ho perso, e ancora non me ne do pace. Scusate la parentesi, che ritenevo doverosa.

 

La tesi di Marco Pappalardo contiene una prima parte che riassume gli studi di cui vi ho fin qui parlato, e che sono ampiamente accessibili. La seconda parte risulta invece molto originale: si tratta di un tentativo di collegare la dieta onnivora adottata dal genere Homo alla complessa socialità che lo caratterizza. Dal punto di vista metodologico, questa ricerca richiede la capacità di integrare gli studi di antropologia evoluzionistica con quelli di antropologia culturale, impresa non facile dal momento che le due discipline sono rimaste a lungo separate [9].

 

Due argomenti principali consentono di collegare l’acquisizione dell’onnivorismo ai comportamenti sociali: l’uso della carne come “valuta sociale” e la divisione sessuale del lavoro.

 

 

 

La carne come valuta sociale

 

 

È risaputo che per molti carnivori – l’esempio più classico è il lupo – l’attività predatoria si basa sulla cooperazione tra individui del branco, regolata da relazioni gerarchiche di una certa complessità. Ancora più complesse risultano le relazioni nei gruppi di animali che praticano l’onnivorismo: ad esempio gli scimpanzé, sostanzialmente frugivori ma che integrano la dieta con insetti e piccoli mammiferi.

 

Alcuni studiosi di questi primati hanno recentemente spostato l’attenzione dall’atto predatorio in sé – non propriamente “pianificato” ma più spesso fortuito, nel senso che semplicemente viene sfruttato opportunisticamente l’incontro casuale con potenziali prede – a quanto accade dopo di esso: il gruppo si raduna, vengono esibiti comportamenti di dominanza e sottomissione, forme insistenti di “questua” e di baratto della carne in cambio di accesso sessuale. Come scrive Craig Stanford:

 

 

 

«Quando la carne diventa una risorsa non più solo alimentare, ma anche una valuta sociale – un modo per aiutare il singolo ad ottenere quello che vuole dal gruppo – non stiamo osservando altro che l’emergere dei sistemi sociali umani basati sul baratto e la valuta» [10].

 

 

 

Se per gli scimpanzé le dinamiche sociali implicate dalla condivisione della carne non rappresentano un aspetto centrale della vita del gruppo, maggiore importanza esse dovevano rivestire presso le prime specie umane che dipendevano dalla dieta onnivora assai più dell’attuale scimpanzé. L'uso della carne diventa vitale per Homo e trascende il problema del reperimento del cibo per diventare un elemento chiave del comportamento sociale. Come scrive ancora Stanford:

 

      «il consumo di carne ha a che fare non solo con la nutrizione, ma anche con la politica» [11].

 

 

 

La divisione sessuale del lavoro

 

 

La dieta onnivora differenzia le modalità con cui il gruppo si procura il cibo, dando luogo a pratiche di specializzazione. L’attività di reperimento di risorse di origine animale, realizzata con la caccia o con lo scavenging che sia, è tipicamente aleatoria: fornisce cibo in modo saltuario e, quando si realizza, in eccesso rispetto alle risorse del singolo individuo. Le femmine, soprattutto se impegnate nel ciclo riproduttivo, saranno portate a prediligere fonti di cibo più sicure e uniformi, quali quelle di origine vegetale o i piccoli animali da “raccogliere” più che cacciare, come insetti e molluschi.

 

In queste condizioni è probabile che si instauri una divisione sessuale del lavoro: le femmine prevalentemente occupate nel cosiddetto “foraggiamento”, cioè nella raccolta continuativa delle risorse alimentari più o meno costanti; i maschi nel procurare le risorse più aleatorie ma, nel momento della loro acquisizione, “eccedenti” e per questo spendibili nelle dinamiche sociali del gruppo. Gli scambi di cibo avvengono tuttavia non solo tra maschi dominanti e subordinati, ma anche tra femmine foraggiatrici e maschi: l’attività venatoria è saltuaria, perciò un maschio può specializzarsi nel reperimento di carne solo assicurandosi una femmina che lo nutra regolarmente. Quest’ultima considerazione è tutt’altro che banale: come nota Marco Pappalardo, troppo spesso si è parlato del food sharing (condivisione del cibo) nei gruppi umani facendo esclusivo riferimento alla fornitura di carne alla femmina da parte del maschio; ma «biologicamente parlando, il vero mistero non è la fornitura maschile di alimenti alla femmina [...]. Il vero mistero, invece, è come sia potuto accadere che la femmina permettesse al maschio di accedere a delle risorse estratte da lei. È questo fenomeno, e non il suo opposto, quello veramente eccezionale nel mondo animale» [12].

 

Ciò che voglio qui far notare è che i rapporti legati al cibo nei gruppi ominidi onnivori diventano sempre più complessi, implicando maschi, femmine, strutture parentali, fasce generazionali, rapporti tra diversi gruppi ... Ne nascono ritualizzazioni, tradizioni, strategie e culture diversificate, totem e tabù e certamente invenzioni, vista l’incredibile encefalizzazione dell’animale coinvolto. In poche parole: un mondo sociale complicatissimo.

 

 

 

Per concludere

 

 

L’interesse di queste considerazioni, che collegano risultati provenienti da discipline molto diverse, è che a partire dalla dimensione biologica ed evoluzionistica si raggiungono – e si possono integrare – alcune categorie fondamentali della sociologia moderna: lo scambio e la divisione del lavoro (centrali nella riflessione di Adam Smith), l’accaparramento e la gestione delle eccedenze (del surplus, avrebbe detto Karl Marx). L’antropologia biologica può così incontrare i filoni più genuinamente materialisti delle scienze sociali: quelli che non cercano l’essenza dell’uomo e le caratteristiche delle società umane nel “mondo delle idee”, ma che guardano (come ancora diceva Marx) alle forme del “ricambio organico tra l’uomo e la natura” [13], a come l’uomo mangia e si procura il cibo. In questo modo possiamo forse trovare, per citare le parole conclusive della tesi di Marco Pappalardo:

 

 

 

«elementi che ci traghettino verso quella che definiremmo un’antropologia integrale, capace non solo di superare quello steccato che divide in due l’essere umano come oggetto di scienza, ma anche, a partire da ciò, di ricomporre quella frattura che attraversa il nostro stesso sguardo sul mondo, scisso fra il campo umanistico e quello scientifico del sapere» [14]. 

 

 

 

Note

[1] R. Dart, The Predatory Transition from Ape to Man, 1953
[2] R. Ardey, African Genesis, 1961
[3] Si veda in proposito F. Giusti, La scimmia e il cacciatore, Donzelli 1994
[4] K. Lorenz, L’aggressività, Il saggiatore 2008
[5] C.K. Brain, The Hunter or the Hunted?, 1981
[6] R. Lewis, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, Adelphi 2001
[7] Si veda G. Rotilio, L’alimentazione degli ominidi fino alla rivoluzione agropastorale del Neolitico, in Aa. Vv., In carne ed ossa, Laterza 2006
[8] Si vedano, in particolare, le parti monografiche de L’Ateo n. 1/2013 (86) e n. 1/2014 (92)
[9] Della separazione tra queste discipline L’Ateo si è spesso occupato. Si vedano Luigi Cavallaro, Natura e cultura: prove (malriuscite) di sintesi, nel n. 1/2007 (49), pp. 17-19 e Carlo Talenti, Il posto dell'uomo nella natura, nel n. 6/2006 (47), pp. 23-26; di questo autore segnalo inoltre una serie di articoli sui rapporti tra antropologia culturale e antropologia biologica: Antropologia culturale e antropologia biologica: pro e contro Darwin, L’Ateo n. 1/2007 (49), pp. 14-16; Antropologia culturale e antropologia biologica: una storia di destini incrociati, L’Ateo n. 2/2007 (50), pp. 8-10; Antropologia culturale e antropologia biologica: il mito della natura umana incompiuta, L’Ateo n. 1/2008 (55), pp. 23-25 conclusi da una bibliografia ragionata.
[10] C.B. Stanford, Scimmie cacciatrici. Il regime carnivoro all’origine del comportamento umano, Longanesi 2001, p. 207
[11] Ibidem
[12] La fornitura di cibo del maschio alla femmina è in effetti diffusa nel mondo animale, soprattutto tra gli uccelli, ma anche in alcune specie di primati.
[13] Si veda, in proposito, Alfred Schmidt, Il concetto di “ricambio organico fra uomo e natura”, in L’Ateo, n. 2/2018 (117), pp. 15-18
[14] Non so come citare la bellissima tesi di Marco Pappalardo: non la trovo tra le tesi consultabili nel sito dell’Università di Roma “La Sapienza” e posso utilizzare solo la copia cartacea che Marco a suo tempo mi ha dato. Voglio scusarmi con lui per lo sciacallaggio (confessato) e per l’utilizzazione (non autorizzata) del suo lavoro. Ma mia madre buonanima diceva: «studiare non serve a nulla, se non si condividono i risultati». Spero che per qualche strana contingenza questa rivista arrivi in mano a Marco, che mi contatti, che mi sgridi magari ma che magari riprenda in considerazione l’idea di trarre un libro dalla sua tesi.