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Rinascimentale “monnezza” romana

 

sporcizia e degrado 

Nihil sub sole novi

 

Rinascimentale “monnezza” romana

 

Luciano Luciani

 

 

Alle soglie del Rinascimento Roma non arrivava ai 60.000 abitanti e i 2/3 del territorio compreso entro la cerchia delle antiche Mura Aureliane si mostravano desolatamente disabitati. Le imponenti fabbriche delle basiliche di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore emergevano in mezzo a scenari ancora in gran parte campestri: e non è senza significato se quello che nell’antica Roma repubblicana era stato il Foro - centro di affari, dei commerci, della vita polica in cui si decidevano le sorti dell’Italia e dell’Europa mediterranea – era andato via via assumendo il più modesto nome di Campo Vaccino, il campo delle vacche. Eppure, nonostante la rarefazione di residenti, il problema della “monnezza” e del suo smaltimento assilla già i Romani. Al punto che, sin dal principio dl XIV secolo, essi pensano bene di darsi una magistratura specifica, i magistri stratarum, col compito di garantire la pulizia di vie e piazze, l’igiene pubblica e il decoro urbano: questione da gran tempo per nulla o mal gestita e sempre, allora come oggi, sul punto di assumere caratteri di vera e propria emergenza. Complicata dal transito e dalla dimora di migliaia di viaggiatori, i pellegrini, e dallo scarso senso civico dei Romani, assai poco disciplinati in materia e usi a buttare dalle finestre ogni tipo di superfluo derivato dalla vita quotidiana. Sarà papa Sisto IV della Rovere (1471 - 1484), lo stesso che farà edificare la Cappella Sistina, ad attribuire ai magistri stratarum  altre importanti incombenze: per esempio, salvaguardare i resti dei monumenti antichi, di solito trattati come cave da cui recuperare i materiali edilizi per la costruzione di nuove abitazioni. Poi, provvedere al mantenimento e alla riparazione degli edifici pubblici, delle fontane e degli acquedotti. Quindi, tenere pulite le strade... Non deve essere stato facile convincere, o se del caso abbligare i Romani, a conferire le immondizie al Tevere, ridotto dalle trascorse glorie di un passato ormai lontano, al ruolo di smaltitore naturale di rifiuti. Per i contravventori dei provvedimenti presi “per consolatione delli habitanti e delli forestieri che ad essa Roma vengono” erano previste multe anche piuttosto salate.

A metà del XV secolo, complice un Giubileo indetto dal pontefice Niccolò V Parentuccelli (1447 - 1455), si stabilì che la pulizia delle strade venisse effettuata ogni sabato e si proibì l’eliminazione della spazzatura ricorrendo al fuoco: una prassi diffusa, tanto sbrigativa quanto pericolosa perché esponeva la città al rischio di devastanti incendi... Per non parlare dei fumi che oscuravano la vista e dei miasmi mefitici insopportabili per gli occhi e i nasi di tutti i Romani. Misure non del tutto soddisfacenti perché mezzo secolo più tardi, l’irascibile papa Giulio II della Rovere (1503 – 1513) si trovò a ribadirle e a procedere alla nomina di un Ufficiale della immondizia col compito precipuo di fare in modo che tutto il pattume urbano fosse scaricato e accumulato in un sito posizionato a un’estremità, in prossimità del Tevere, della nuova via Giulia e in altri luoghi di raccolta posti in punti diversi della città. Quando, però, nel 1518 papa Leone X Medici (1513 - 1521) indisse solenni processioni di penitenza lungo le vie di Roma, i responsabili della pulizia della capitale del cattolicesimo ebbero il loro bel daffare a rendere transitabili almeno le strade principali.