La Superiorità mentale della Donna
Marirosa Di Stefano
Non prendete troppo sul serio il titolo. È stato scelto per ricordare, parodiandolo, un bieco libello intitolato L’inferiorità mentale della donna pubblicato agli inizi del secolo scorso che ha avuto una grande (e negativa) influenza sulla cultura del ‘900. Basti dire che la dottrina delle 3K (kirke, chiesa; kucke, cucina; kinder, bambini) formulata dai nazisti per definire il ruolo sociale delle donne è ispirata e giustificata dalle asserzioni di Paul J. Moebius, il neurologo tedesco autore del libro.
Moebius sostiene che la donna sia fisiologicamente deficiente e -ci tiene a dichiarare- il suo non sarebbe un giudizio di valore ma una costatazione scientifica, la cruda analisi dei fatti. In realtà di fatti nel libro di Moebius non ce ne sono. Ci sono invece assunti che attribuiscono alla donna caratteristiche del tipo:
- una strutturale istintualità che rende le sue reazioni simili a quelle degli animali e, come per questi, dipendenti dalle influenze esterne;
- un comportamento ripetitivo e stereotipato ancorato alle convenzioni che intralcia l’uomo nel suo procedere lungo la via del progresso;
- un’innata impossibilità a conciliare intelletto e maternità tanto che, se i due ambiti non rimangono strettamente separati, il risultato sarà quello di dare corpo a un “mostruoso ermafrodita”.
I tempi non erano maturi per riferirsi esplicitamene al ruolo di oggetto sessuale a cui la natura avrebbe destinato la donna, ma Moebius vi allude in molte pagine del libro, anche quando per dimostrare l’inferiorità femminile usa il dato “scientifico” considerato all’epoca incontrovertibile perchè fondato sull’oggettività delle misure del cranio. La craniometria, alla cui dottrina Moebius era stato allevato, riteneva di poter inferire dalle dimensioni del cranio la misura del cervello e quindi il livello delle abilità cognitive dell’individuo. Dal momento che la testa di una donna è generalmente più piccola di quella di un uomo ne consegue che anche il cervello che contiene avrà dimensioni inferiori e l’intelligenza meno sviluppata.
Le misure del cervello
La craniometria era fiorita in Francia nella seconda metà dell’ottocento con lo scopo dichiarato di dimostrare la superiorità dei bianchi sui neri e (possibilmente) sulle etnie asiatiche.
Il gran maestro di questa crociata colonialista era Paul Broca, un ricercatore di valore, quello che ha identificato nell’emisfero sinistro l’area del linguaggio che ora porta il suo nome. Broca dichiarava senza mezzi termini che “in generale il cervello è più grande nell’adulto che nell’anziano, negli uomini che nelle donne, negli uomini eminenti che in quelli di mediocre talento, nelle razze superiori che in quelle inferiori”. E certamente a una razza inferiore appartenevano i neri che con il loro prognatismo dimostravano di trovarsi in uno stadio di transizione tra la scimmia e l’uomo vero, quello bianco. Riguardo alle donne invece Broca si rivelava possibilista scrivendo che, a dispetto del cervello più piccolo, se adeguatamente educate le donne potevano migliorare le loro capacità intellettive.
Fu presto evidente che la dimensione del cranio non era una misura sufficientemente affidabile per stabilire la relazione tra sviluppo dell’intelligenza e dimensioni del cervello: era necessario misurarne il volume. A quel tempo però non c’erano strumenti per calcolare il volume del cervello altro che post mortem. E per ottenere queste misure lo psichiatra americano Edward C. Spitzka lanciò un ardente appello agli uomini di valore -scienziati, scrittori, filosofi- affinchè lasciassero il loro cervello alla scienza. In Europa la risposta all’appello fu entusiastica e la dissezione di colleghi morti divenne pratica comune tra gli accademici di fine ottocento.
L’invito di Spitzka non era stato rivolto alle donne perchè evidentemente non si riteneva che ce ne fossero di tale valore da poter essere oggetto di studio. Le misure dunque vennero fatte tutte su maschi e i risultati furono molto deludenti perchè il peso del cervello di uomini molto celebrati in vita si rivelò essere spesso sotto la media (che è 1350g). Quando Broca scoprì che i cervelli di cinque eminenti professori della prestigiosa università di Goettingen pesavano veramente troppo poco rispetto a quanto ci si poteva aspettare viste le posizioni che avevano occupato, scrisse sconsolato e (profetico) “una toga universitaria non è necessariamente un certificato di genialità e perfino a Goettingen le cattedre sono occupate da uomini di non grande valore”.
Vale la pena di ricordare che l’idea che nei singoli individui esista una stretta relazione tra intelligenza e dimensioni del cervello è dura a morire: si è continuato a cercare di dimostrarla anche in anni recenti utilizzando le tecniche di brain imaging per correlare le misure del cervello in vivo con i valori ottenuti ai test d’intelligenza.
In difesa delle donne
Fino ad allora la voce più importante e articolata che aveva rivendicato per le donne le stesse capacità mentali e gli stessi diritti degli uomini era stata quella di Mary Wollstoncraft. Nata e morta in Inghilterra nella seconda metà del ‘700 Mary Wollstoncraft visse, per i canoni dell’epoca, una vita molto poco convenzionale. Cresciuta in una famiglia che oggi si direbbe disfunzionale aveva dovuto fin da giovanissima badare a se stessa lavorando come insegnante, governante, traduttrice, mentre si impegnava con determinazione ad innalzare il suo livello d’istruzione e allargare il campo delle conoscenze.
Nel 1792 scrive A Vindication of the Rights of Woman, il libro che la rende celebre e allo stesso tempo la espone a critiche feroci da parte dei contemporanei. Nel libro l’autrice rifiuta con energia la nozione allora prevalente secondo cui le donne andavano trattate come “delicati ornamenti della casa dell’uomo” e sostiene che la loro vita confinata tra le mura domestiche le rende persone frustrate e tiranniche coi figli e con la servitù; se le donne potessero avere accesso all’istruzione nella stessa misura dei maschi e avere le loro stesse opportunità non ci sarebbe nessuna differenza nelle capacità mostrate dai due sessi. Una sua frase celebre recita “Gli uomini sembrano impiegare la loro ragione per giustificare i pregiudizi di cui sono, chissà come, impregnati piuttosto che per sradicarli”.
Mary Wollstoncraft, la sua figura e la sua opera, fu schernita e censurata durante il riflusso reazionario che travolse l’Europa dopo la rivoluzione francese per essere riscoperta nel XX secolo, ad opera delle suffraggette prima e delle femministe poi.
Il darwinismo non riscatta le donne
Le teorie evoluzioniste che dall’inizio del ‘900 si andavano diffondendo nella cultura europea e prendevano saldamente piede in ambito scientifico non fecero che dare nuovi argomenti a chi sosteneva la naturale inferiorità della donna.
Per giustificare la subalternità del genere femminile i meccanismi evolutivi descritti da Darwin vennero applicati a teorie nebulose per trarre conclusioni dettate da spirito di parte. Di seguito vengono riportati alcuni esempi.
- I giovani di entrambi i sessi somigliano alla femmina della specie. Il fatto che la donna conservi nel corso della vita adulta caratteri infantili indicherebbe un arresto nel processo evolutivo. Il famoso anatomico tedesco Oskar Vogt definì la donna uno stunted man, ovvero un maschio non sviluppato, come una pianta che cresce rachitica e rimane nana, e concluse che gli uomini sono evolutivamente più avanzati delle donne.
- La selezione sessuale è parte integrante della selezione naturale. Per trasferire i suoi geni il maschio deve vincere una competizione intraspecifica: dimostrando di essere fisicamente ed intellettualmente più forte dei suoi simili si assicura l’accesso alle femmine. Le femmine possono scegliere ma nella maggior parte dei casi non sono particolarmente schizzinose riguardo all’aspetto fisico dei maschi e anzi si mettono nella condizione di farsi scegliere potenziando quelle caratteristiche che alimentano l’attrazione sessuale. In ultima analisi sarebbero i maschi ad avere il potere di selezione e dunque a controllare l’evoluzione.
- Il fenotipo maschile è più variabile di quello femminile e, poichè le variazioni sono il meccanismo principe del processo evolutivo, il maschio sarebbe l’elemento progressivo della specie.
Rimanendo nella stessa linea di pensiero in anni vicini ai nostri la maggiore variabilità fenotipica del maschio è stata chiamata in causa per spiegare come mai la frequenza di individui geniali sia più alta tra gli uomini che tra le donne.
Un rovesciamento del punto di vista
Se l’evoluzione può essere usata per sostenere l’inferiorità femminile si presta però anche a dimostrare la tesi opposta, quella di una naturale superiorità della donna, come recita il titolo del libro che il biologo anglo-americano Ashley Montague pubblicò per la prima volta nel 1952.
Montague comincia con l’argomentare che, rispetto al maschio, la femmina della specie umana possiede alcune caratteristiche biologiche che appaiono più vantaggiose per la sopravvivenza. Tra le altre cita una maggiore longevità e un corredo genetico che per la presenza di due cromosomi X la mette al riparo da certe malattie dovute a difetto cromosomico, come l’emofilia e la cecità ai colori, che colpiscono solo i maschi. Continua poi smontando le teorizzazioni di Darwin e degli evoluzionisti dopo di lui secondo cui la trasmissione ereditaria di tratti come l’intelligenza e le capacità immaginative favorirebbe i maschi molto più delle femmine. E se assolve Darwin perchè ai suoi tempi non si conoscevano le leggi della genetica, accusa di malafede gli evoluzionisti moderni che hanno tradito i principi dell’ereditarietà, ormai noti alla scienza, per sostenere i loro pregiudizi.
Infine Montague ribalta a favore delle donne due osservazioni, una di natura biologica e l’altra psicologica, largamente utilizzate per dimostrare l’inferiorità femminile.
- La somiglianza delle donne ai giovani della specie sarebbe indicativa di un ritardo del genere femminile lungo il percorso evolutivo.
In realtà è vero il contrario. Il mantenimento di caratteristiche morfologiche e fisiologiche giovanili -una condizione chiamata neotenia- è stata riconosciuta come uno dei motori principali del processo di umanizzazione: nel corso della vita di noi umani, infatti, i tratti infantili scompaiono molto più tardi che in quella delle nostre cugine scimmie. Steven J. Gould afferma che la neotenia informa tutta la nostra storia evolutiva visto che, tra l’altro, garantisce al cervello una prolungata condizione di plasticità, vantaggiosa per lo sviluppo delle capacità cognitive. In questa luce, commenta Montague, la maggiore neotenia osservata nella femmina della specie umana deve essere interpretata come segno del suo più avanzato livello evolutivo, di una maggiore vicinanza al tipo umano a cui il maschio si va approssimando.
- Le donne sono (troppo) spesso accusate di “istintualità”, di reagire alle situazioni esterne con comportamenti dettati da pulsioni piuttosto che da riflessioni, il che le accomunerebbe alle bestie la cui unica guida è rappresentata dall’istinto.
Montague si sofferma a lungo su questo punto. Quello di cui gli uomini scarseggiano, dice, e che etichettano come “istinto” è il risultato di una pratica alle relazioni umane che nella donna ha la sua origine nello stretto rapporto madre-figlio ma che viene potenziata ed estesa ben oltre la maternità. Per questa sua migliore capacità relazionale la donna si rivela maggiormente capace di cogliere le sfumature, i segni subliminali delle intenzioni e delle emozioni umane che ai maschi generalmente sfuggono.
All’edizione de La naturale superiorità della donna, uscita negli USA nel 1974 nel pieno delle battaglie per la liberazione delle donne, Montague aggiunge un paragrafo che è una sorta di appassionato appello rivolto alle più radicali tra le militanti del movimento femminista. Sarebbe auspicabile, dice, che la sacrosanta lotta delle donne non si risolva in un’adesione incondizionata alla corrente visione maschile del mondo; le donne dovrebbero impegnarsi per trasmettere ai maschi quelle caratteristiche più squisitamente femminili, di solidarietà, empatia, cooperazione, indispensabili per costruire una società e un’umanità migliore.
Differenze di genere nel cervello
Alla domanda se esistono differenze strutturali tra il cervello degli uomini e quello delle donne la risposta non può che essere Si e No.
Certamente la morfologia e la fisiologia delle strutture sottocorticali che controllano il dimorfismo sessuale e la regolazione degli ormoni legati alla riproduzione non sono identiche nei maschi e nelle femmine.
Ma nelle regioni implicate nei processi cognitivi ed emozionali (aree della corteccia e sistema limbico) non è presente nessuna differenza tra i due sessi.
I primi studi sulla lateralizzazione funzionale degli emisferi cerebrali, cioè sulla prevalenza dell’emisfero sinistro per competenze linguistiche e dell’emisfero destro per competenze spaziali, hanno fatto ipotizzare che nelle donne la divisione di compiti tra i due emisferi fosse più sfumata o addirittura assente. Poichè nelle scimmie antropomorfe non sembra esistere nessuna differenza funzionale tra gli emisferi, il dato è stato letto come una prova ulteriore della posizione della donna su un gradino più basso della scala evolutiva.
Anche ammesso che nelle donne la specializzazione emisferica non sia così netta come nei maschi -e gli studi più recenti non sono concordi su questa conclusione- la condivisione delle funzioni tra i due emisferi può essere vista come un vantaggio e non già come un segno di inferiorità evolutiva. La localizzazione in un solo emisfero di aree deputate ad una specifica funzione, come la produzione e la comprensione del linguaggio, contiene in sè un elemento di vulnerabilità: una lesione emisferica infatti causa all’individuo la perdita definitiva di quella funzione che l’altro emisfero non è in grado di vicariare. Una ridotta specificità emisferica, invece, per cui le due metà del cervello sono entrambe più o meno attrezzate per lo stesso compito, rappresenta una salvaguardia contro un deficit funzionale irreparabile. E dunque una condizione di limitata lateralizzazione potrebbe essere stata utile al genere umano per garantire l’efficienza di chi, con la cura dei piccoli, ha giocato un ruolo cruciale nella sopravvivenza della specie.
Un’idea molto popolare è che i cervelli maschili siano più adatti al ragionamento astratto, in particolare nel campo della matematica, e che questa sia una predisposizione innata. Non ci sono prove biologiche nè solidi dati neuropsicologici a sostegno di questa convinzione che è però così pervasiva da influenzare anche persone (intese come maschi) di alta cultura come Lawrence Summers, presidente dell’Università di Harward. Nel 2005, in un discorso pubblico, Summers commentò che il numero limitato e lo scarso successo delle donne nella ricerca scientifica e speciamente in quella matematica era da imputare a differenze presenti fin dalla nascita tra i cervelli maschili e quelli femminili. Le reazioni sollevate da questa dichiarazione costrinsero Summers alle dimissioni dalla presidenza di Harvard.
Nel 2008 è stato condotto uno studio sulle abilità matematiche dei due sessi usando come soggetti 300.000 adolescenti di 30 paesi diversi. I risultati dimostrano chiaramente quale sia il peso dell’ambiente socio-culturale nel determinare le prestazioni delle donne. Là dove c’è una sostanziale uguaglianza tra maschi e femmine (Svezia, Norvegia, Islanda) i risultati delle ragazze ai test matematici sono pari a quelli dei ragazzi o anche migliori; i maschi prevalgono invece sulle femmine in paesi come la Turchia, la Corea e l’Italia.
Una qualità attribuita -con una certa compiacenza- alle donne è quella di essere multitasking indicando con questo termine la capacità di fare cose diverse contemporaneamente o in rapida successione. Le donne avrebbero un’innata attitudine al multitasking che manifestano quotidianamente dal momento che, oltre a fare il loro lavoro fuori casa, riescono anche ad occuparsi di pulizie domestiche, preparazione dei pasti, accudimento dei bambini, degli animali domestici e magari anche del partner.
È stato suggerito che, diversamente dagli uomini, il cervello delle donne sia strutturato per fronteggiare svariate e simultanee richieste comportamentali grazie a una migliore connettività interemisferica che assicura un più alto grado di cooperazione tra le due metà del cervello.
Uno studio pubblicato nel 2014 ha cercato di verificare questa ipotesi utilizzando una sofisticata tecnica di brain imaging che permette di paragonare l’attività delle fibre di collegamento tra gli emisferi con l’attività delle fibre che decorrono all’interno di ogni singolo emisfero. La comparazione è stata fatta in maschi e femmine di tre classi di età: bambini, adolescenti e giovani adulti. Per dimostrare la predisposizione biologica delle femmine al multitasking era necessario che in tutte le classi di età venisse osservata una più intensa attività delle connessioni inter- rispetto a quelle intraemisferiche, e che questa prevalenza non fosse presente nei maschi.
I dati mostrano che nell’infanzia non c’è differenza nella connettività cerebrale dei due sessi; nell’adolescenza emerge una tendenza delle femmine a rafforzare le connessioni tra gli emisferi ma la differenza con i maschi di pari età non è statisticamente significativa e rimane sotto la soglia della significatività anche nei giovani adulti in cui la tendenza appare più accentuata. Questi risultati, corredati delle accattivanti immagini colorate che illustrano il decorso delle fibre nel cervello in vivo, sono stati diffusi dai media come la prova scientifica dell’attitudine femminile al multitasking, ma sono tutt’altro che conclusivi. Anzi, possono essere letti come un esempio della plasticità del cervello umano che viene modellato dalle influenze ambientali. Infatti, poichè l’efficienza della connettività interemisferica delle donne cresce col tempo e una qualche differenza con i maschi diviene percepibile solo negli adulti, è legittimo escludere ogni ipotesi di innatismo e pensare invece che le strutture responsabili dell’abilità di multitasking vengono potenziate dalla pratica, in risposta, presumibilmente, alle richieste dell’ambiente sociale e familiare oltre che dell’educazione.