La marcia del progresso
Spiegazione (letteralmente) di una brutta figura
Maria Turchetto
Un’odiosa figurina
Se digitate “evoluzione” su Google Images, internet vi restituisce alle prime 50 e oltre posizioni una illustrazione nota come LA MARCIA DEL PROGRESSO (1) (o una delle sue infinite varianti): cinque o sei figurine in progressione, da una sorta di scimpanzé a un homo sapiens in versione bianca e bionda. Queste figurine sono diventate la rappresentazione tanto canonica quanto errata del processo evolutivo della nostra specie.
Nessuno pretende il rigore scientifico da Google Images, che non restituisce le immagini più corrette ma quelle più diffuse. In effetti, ciò che ricaviamo è una testimonianza dell’enorme diffusione che ha tutt’ora quest’immagine, nonostante le reiterate proteste degli studiosi.
Le proteste sono state particolarmente sentite nel 2009, in occasione del bicentenario della nascita di Darwin e del centocinquantesimo anniversario della pubblicazione de L’origine delle specie: in tale occasione, infatti, numerose celebrazioni ufficiali hanno riproposto l’odiosa figurina. L’Italia si è particolarmente distinta per averla riproposta in un francobollo celebrativo – unico paese europeo a commettere questa gaffe insieme alla Bosnia.
Perché parlo di una gaffe? Perché l’immagine suggerisce uno sviluppo lineare (cioè non ramificato) e progressivo (in cui cioè l’esemplare successivo risulta migliore del precedente), mentre Darwin scriveva nell’Origine:
"La selezione naturale, o sopravvivenza del più adatto, non comporta necessariamente uno sviluppo progressivo, essa si limita a trarre vantaggio da quelle variazioni che si manifestano spontaneamente e risultano vantaggiose per ciascun vivente nei suoi complessi rapporti con l’ambiente". (2)
Le proteste non sono servite a granché. Le pagine dedicate alla divulgazione scientifica dei maggiori quotidiani continuano tutt’ora a riproporre l’odiosa figurina a corredo degli articoli sulla paleoantropologia.
Fuori l’autore!
Ma da dove viene l’odiosa figurina? L’autore è l’illustratore americano Rudolph Franz Zallinger, incaricato nel 1965 di illustrare il libro divulgativo di Early Human. L’illustrazione originaria comprendeva 15 figure. Benché tali figure formassero graficamente una serie lineare in successione (non per colpa del disegnatore, che le realizzò separatamente), le didascalie chiarivano che non tutti gli ominidi rappresentati erano uno discendente dell’altro; inoltre, alcune linee temporali che sovrastavano la serie chiarivano che alcuni ominidi erano compresenti nello stesso periodo (ad esempio Neanderthalenis e Sapiens, Cro-Magnon e Sapiens, Rhodesian – oggi chiamato Heidelbergensis – e gli altri tre); la stessa immagine non rappresenta, inoltre, una successione in salita.
Ovviamente l’immagine complessiva risultava molto estesa, per cui fu stampata in un paginone che si piegava all’interno del volume.
Come è intervenuta la semplificazione?
In primo luogo, ripiegando il paginone (ed eliminando così due primati iniziali e sei ominidi centrali).
In secondo luogo, togliendo le didascalie e l’importante scala temporale (in questo modo, sembra che una forma derivi dall’altra e sostituisca la precedente).
Infine, aggiungendo arbitrariamente una sorta di “evoluzione tricologica” (il più evoluto è il meno peloso) e colorando l’immagine (il più evoluto è bianco e biondo).
Ecco ricostruita la genesi – l’“evoluzione”, se preferite – della nostra odiosa figurina. Un’evoluzione in cui partecipano il caso (la piegatura del paginone non era preordinata alla semplificazione divulgativa, ma dipendeva dai “vincoli strutturali” del layout del volume), ma anche qualcosa che nell’evoluzione naturale non c’è (mentre è ben presente nell’evoluzione culturale): l’ideologia. L’ideologia del progresso, della superiorità della razza bianca, ecc.
Ma che cos’è l’ideologia? Secondo il filosofo francese Louis Althusser, l’ideologia partecipa di due elementi: prescientifico (rifermento a concezioni scientifiche superate) ed extrascientifico(3) (riferimento ad istanze diverse rispetto all’ambito propriamente scientifico). Propongo perciò una breve analisi degli “errori” oggi riconosciuti nell’odiosa figurina chiedendomi, per ciascuno di essi, quanto partecipa l’elemento prescientifico e quanto quello extrascientifico.
Come ho premesso, ciò che viene principalmente contestato all’immagine incriminata è di suggerire dell’evoluzione umana un’idea lineare (una forma segue l’altra e muta nell’altra) e progressiva (la forma successiva è migliore della precedente).
Linearità
A proposito della linearità intesa come successione (una forma segue l’altra), il primatologo e paleoantropologo Ian Tatterstal ha sostenuto che a lungo quest’idea ha rappresentato un vero e proprio “ostacolo epistemologico” nel campo della paleoantropologia. Dopo i primi studi sui fossili umani, Tatterstal(4) studiò a lungo i lemuri del Madagascar. Esperienza quanto mai utile, scrive Tatterstal . A nessuno sarebbe mai venuto in mente di ordinare le oltre cinquanta specie di lemuri viventi e le venti estinte di cui esisteva una documentazione fossile secondo una scala lineare di successione. Perché questo veniva fatto invece con i fossili umani “a costo di nascondere un bel po’ di reperti sotto i tappeti”? Certo, le tecniche di datazione erano assai meno precise di quelle attuali (elemento prescientifico); ma senza dubbio
gli studi venivano fuorviati dall’idea della unicità della nostra specie (elemento extrascientifico).
Oggi la paleoantropologia ha “normalizzato” la nostra visione della storia umana. I nuovi ritrovamenti e l’affinamento delle metodologie di datazione e di analisi dei reperti hanno messo in evidenza la diversità dei resti fossili umani. Sappiamo che ancora 50.000 anni fa in Africa e in Europa convivevano cinque o sei specie umane. La storia umana, come quella di tutti gli altri organismi, “è un racconto di esperimenti evolutivi continui”(5), di speciazioni e di estinzioni. Siamo il rametto di un cespuglio, non il traguardo di una marcia che procede in una direzione necessaria.
Progressività
L’odiosa figurina suggerisce un percorso che i biologi evoluzionisti definiscono anagenesi (o speciazione filetica, o speciazione successionale): una serie di mutamenti graduali nell’ambito di una specie che conducono a “sostituzioni” della forma primitiva con una forma successiva, senza ramificazioni dell’albero filogenetico. L’evoluzione procede per lo più per cladogenesi, ossia per separazione (fisica, geografica) di una varietà che, verificatosi un isolamento riproduttivo, diventa specie. In altre parole, l’anagenesi vede un’unica popolazione progressivamente modificata, la cladogenesi la formazione di più popolazioni (e l’eventuale estinzione di alcune di esse). Il percorso “normale” è quello della cladogenesi – o un percorso misto di cladogenesi e anagenesi) e ovviamente l’uomo non fa eccezione: anche da questo punto di vista la storia dell’uomo è stata “normalizzata” dagli studi recenti.
In sostanza, possiamo dire che le recenti acquisizioni nel campo della paleoantropologia hanno confutato alcune idee prescientifiche e superato alcuni “ostacoli epistemologici” che derivavano da “arroganti” idee extrascienfiche: l’idea che l’uomo è unico, che il risultato di un progresso, in quanto tale un fine della natura – che da milioni di anni stava lì ad aspettare noi…
C’è da fidarsi della scienza?
La domanda è lecita, dal momento che la storia della paleoantropologia ha registrato molti errori – imputabili, come abbiamo visto, non semplicemente alla mancanza di tecniche, strumenti, conoscenze ma anche all’azione di preconcetti culturali. Certamente la scienza non vive nel vuoto pneumatico, non cresce in una torre d’avorio incontaminata. È inserita nella società ed è dunque permeabile alle idee che nella società si muovono, agli interessi e ai conflitti che la attraversano. La scienza non consiste in una asettica rilevazione di fatti – l’abbiamo visto a proposito dei fossili umani, che non venivano semplicemente descritti e catalogati, ma ordinati secondo l’idea di progresso – e le teorie non sono inesorabili induzioni dai fatti.
Un autore che ha espresso molto bene questa problematico è Stephen J. Gould, che scrive: “Critico [...] il mito che la scienza stessa sia un’impresa obbiettiva […]. Credo che la scienza debba essere compresa come un fenomeno sociale, come una coraggiosa impresa umana, non come il lavoro di automi programmati per raccogliere informazione pura […]. La scienza, dal momento che viene praticata dall’uomo, è un’attività socialmente inserita. Essa progredisce per impressioni, immaginazione e intuizione. La maggioranza dei suoi cambiamenti nel tempo non registra un avvicinamento alla verità assoluta, ma il mutamento dei contesti culturali che la influenzano così fortemente. I fatti non sono frammenti puri e incontaminati di informazione; anche la cultura influenza che cosa vediamo e come lo vediamo. Le teorie, inoltre, non sono inesorabili induzioni dai fatti. Le teorie più creative sono spesso visioni fantasiose imposte sui fatti: anche la fonte di immaginazione è fortemente culturale”(6). La citazione è tratta dal libro Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, un testo molto impegnato socialmente (come si evince dal sottotitolo) e molto severo nei confronti di quella biologia che si è lasciata usare “come ideologia” (7) (come il cosiddetto “razzismo scientifico”, l’antropologia criminale di Lombroso, un certo uso dei test di intelligenza). Tuttavia Gould non vuole legittimare la posizione di chi sostiene che la scienza “è un discorso come un altro”(8), qualcosa che riflette solo i contesti sociali e che nulla ha a che fare con la “verità”. La scienza impara dalla realtà – “anche se a volte in modo ottuso e errato”(9) – e mantiene un compito veritativo. Non si tratta di inficiare tale compito, ma di comprendere che la scienza fa parte della cultura e della società, e che proprio per questo ha sempre un valore di posizione. Essa si traduce inoltre in pratiche che agiscono sulla società, sulle relazioni sociali e sulle gerarchie sociali: a volte con l’effetto di consacrarle e legittimarle, altre volte trasformandole e sovvertendole.
C’è da fidarsi della divulgazione scientifica?
Molto meno. La divulgazione ha un compito nobile. Il termine divulgare significa rendere noto a tutti qualcosa che avrebbe dovuto restare segreto: un atto eminentemente democratico, dunque.
Ma divulgare non è facile. E non è oggetto di sufficiente attenzione, soprattutto in Italia. Franco Fortini diceva che l’Italia è piena di poeti e letterati, ma ben pochi si applicano alla scrittura di buoni manuali e di buoni testi divulgativi. E quanto Fortini diceva a proposito della letteratura può essere esteso a molti altri saperi. Il caso della filosofia, ad esempio, è a mio avviso piuttosto grave: a volte si mantiene volutamente su un registro “oscuro” e sapienziale, altre volte si confonde la divulgazione con l’entertainment e la conversazione frivola – complice l’industria culturale di massa – sacrificando il rigore. Discipline come l’economia si rendono volutamente incomprensibili. Nel campo delle scienze naturali le cose, negli ultimi anni, vanno forse meglio quanto a libri, manuali, riviste, alcune trasmissioni radio, mentre il mondo mediatico dei quotidiani e della televisione resta un buco nero.
Note
(1) Credo che sia stato Stephen J. Gould a intitolare in questo modo questa immagine, nel primo capitolo de La vita meravigliosa, dedicato a un commento delle rappresentazioni fuorvianti, in particolare delle immagini della scala e del cono ampiamente adottate per illustrare i processi evolutivi. “Non riesco a capire la nostra persistente adesione alle iconografie manifestamente false della scala e del cono se non come un tentativo disperato per giustificare […] la nostra arroganza a livello cosmico” (Stephen J. Gould, La vita meravigliosa. I fossili di Burgess e la natura della storia, Feltrinelli, 2018, p. 41). (torna su)
(2) La citazione è tratta dalla IV edizione dell’ Origine: si tratta di un’importante precisazione contro le interpretazioni progressiste che erano state date della sua teoria. (torna su)
(3) Louis Althusser, Filosofia e filosofia spontanea degli scienziati, UNICOPLI, Milano 2000. (torna su)
(4) Ian Tattersall, La scimmia allo specchio, Meltemi 2003. (torna su)
(5) Ivi. (torna su)
(6) Stephen J. Gould, Intelligenza e pregiudizio. Contro i fondamenti scientifici del razzismo, Il Saggiatore, 2008. (torna su)
(7) Si veda, in proposito, Richard C. Lewontin, Biologia come ideologia, La dottrina del DNA, Bollati Boringhieri 1993. (torna su)
(8) Così, ad esempio, Harry G. Frankfurt, On Bullshit, Suhrkamp, 2014. (torna su)
(9) Stephen J. Gould, Intelligenza e pregiudizio, cit. (torna su)