SCHEDA
la Risonanza Magnetica
Marirosa di Stefano
L’avvento della Risonanza Magnetica (RM), negli anni ’80 del secolo scorso, ha rivoluzionato gli studi sul cervello. Le immagini delle strutture cerebrali in vivo che prima venivano ottenute con tecniche invasive e di scarsa risoluzione, diventano grazie alla RM estremamente più definite e soprattutto più facili da acquisire. La visualizzazione del cervello infatti non richiede l’iniezione - potenzialmente rischiosa - di sostanze radioattive o di mezzi di contrasto, ma si basa sull’applicazione di intensi campi magnetici che interferendo con il movimento degli atomi di idrogeno presenti nei liquidi organici creano dei gradienti magnetici da cui si ricava la mappa delle strutture sottostanti.
Nella pratica clinica la RM è un ausilio prezioso per rivelare alterazioni nell’anatomia del cervello così come di altri organi e parti del corpo (RM strutturale) ma è nella sua versione funzionale (RMf) ad essere diventata lo strumento principe della ricerca neuroscientifica.
La RMf utilizza le proprietà magnetiche dell’emoglobina che si modificano in risposta ai cambiamenti dei livelli di ossigeno; da queste variazioni si desume l’entità del flusso ematico locale. L’assunto è che più una regione è attiva (funzionante) e più sarà alto il suo flusso sanguigno, a paragone di altre regioni del cervello. La RMf dunque non misura direttamente l’attività neurale, ma stima il livello di attivazione delle diverse strutture cerebrali in base all’apporto ematico locale valutato dal grado di ossigenazione dell’emoglobina.
Poiché la risoluzione spaziale della RMf è molto buona, di pochissimi millimetri (al contrario di quella temporale che è molto bassa rispetto alla velocità con cui viaggiano i segnali nervosi), è possibile ottenere immagini anche delle strutture cerebrali profonde, subcorticali, mentre il soggetto è impegnato in un compito, per esempio pianificare o eseguire atti motori, riconoscere figure o suoni e compiere delle scelte. Per questo la RMf viene comunemente descritta come il metodo con cui si può fotografare il cervello al lavoro.
L’uso della RMf in ambito neurobiologico si è diffuso con straordinaria rapidità. La relativa innocuità del mezzo e l’apparente facilità con cui si potevano ottenere informazioni circa il funzionamento del cervello umano integro (fino ad allora le conoscenze venivano principalmente dagli esperimenti sugli animali e dai casi clinici con lesioni cerebrali focali) ha provocato un’esplosione di studi. L’obiettivo di un gran numero di questi lavori era localizzare la sede delle funzioni cognitive superiori, dalle diverse forme di memoria al calcolo matematico, dall'attenzione al ragionamento analitico, fino a voler identificare le aree responsabili degli stati mentali e delle attitudini psicologiche dell'individuo. La furia localizzatrice di queste linee di ricerca ha provocato - già da qualche anno - le critiche di alcuni addetti ai lavori che hanno paventato la nascita di una “nuova frenologia”[1] e messo in evidenza le limitazioni tecniche della RMf e le modalità spesso troppo disinvolte con cui i dati sono elaborati ed interpretati[2].
Le procedure con cui si passa dai dati bruti (le misure delle variazioni magnetiche) a poter asserire che una certa struttura neurale è funzionalmente implicata nel compito sperimentale, sono estremamente laboriose e complicate. Poiché la RMf richiede che vengano raccolte centinaia di migliaia di misure su tutto il cervello c'è il notevole rischio che un'attivazione locale sia frutto del caso e non indichi affatto che quella parte del cervello è determinante per una specifica funzione. Per escludere attivazioni sporadiche e inconsistenti è necessario che i valori dell'attività misurati in regioni cerebrali diverse vengano confrontati tra loro mediante stringenti analisi statistiche, e l'identificazione delle aree che si attivano esclusivamente durante il compito sperimentale deve poter emergere da questi confronti oltre che dal confronto con una condizione neutra, di controllo. I risultati di queste sofisticate procedure analitiche sono poi elaborati graficamente al computer e presentati in forma iconica: su un cervello visto dall’alto sono rappresentati in colori diversi i diversi livelli di attività osservati nelle regioni cerebrali.
In questi anni ci siamo abituati a vedere queste immagini riprodotte sui giornali e sul web per illustrare le nuove acquisizioni neuroscientifiche, anche quando si tratta di risultati inconsistenti il cui unico valore è il sensazionalismo. Come è accaduto nel 2007 quando, in occasione delle elezioni primarie per la presidenza degli USA, il New York Times riportò con molta enfasi le immagini di uno studio[3] che metteva in relazione l'architettura cerebrale con le preferenze politiche individuali; e nel 2015 quando molta stampa internazionale ha mostrato da quali regioni del cervello dipenderebbero le emozioni proprie dell’amore romantico[4].
[1] Sherman M. A new phrenology?, in Sci Am, 2018, 298, pp. 46-48.
[2] R.A. Poldrack et al., Scanning the horizon: towards transparent and reproducible neuroimaging research, in Nat Rev Neurosci, 2017, 2, pp. 115-126.
[3] J.T. Kaplan et al., Us versus them: political attitudes and party affiliation influence neural responses to faces of presidential candidates, in Neuropsychologia, 2007, 45, pp. 55-64.
[4] H. Song et al., Love related changes in the brain: a resting-state FMRI study, in Front Hum Neurosci, 2015, 9, pp. 71-75.