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Miti greci e carne umana

 

Saturno che divora i suoi figli 

 

 

Miti greci e carne umana

 

 

 

Luciano Luciani

 

 

 

 

 

L’antropofagia, ovvero il cibarsi di carne umana, è stato un uso diffuso - ed è forse ancora una pratica, sia pure eccezionale - presso numerose società primitive: per esempio nell’Africa centrale e meridionale, in alcune zone dell’Asia sud-orientale e insulare, in Amazzonia... Se non possiamo escludere che essa sia stata conosciuta dai popoli raccoglitori e cacciatori della preistoria, l’antropofagia è un fenomeno relativamente tardo che conobbe la sua massima espansione col sorgere delle culture agricole matriarcali, presso le quali era ampiamente diffusa la caccia all’uomo per mangiarlo. In un tale esercizio si distinguono due forme: la endocannibalica e la esocannibalica, a seconda che le vittime siano scelte all’interno del proprio gruppo sociale (individui morti per cause naturali; bambini indesiderati; parenti eliminati in età senile... ), oppure al di fuori (nemici uccisi in battaglia; schiavi; stranieri catturati... ). Ma perchè l’uomo mangia l’uomo? Tra le motivazioni dell’antropofagia possiamo individuare la profana o gastronomica, in cui la carne umana viene appetita per fame, necessità alimentari o ricerca di un cibo ritenuto attraente; oppure la giudiziaria, praticata a spese di individui condannati a morte per gravi reati; o la rituale che attiene alla sfera religiosa, per esempio i pasti cannibalici connessi ai sacrifici umani dell’antico Messico; non si dimentichi, poi, la manifestazione più diffusa della antropofagia, quella magica in cui determinati organi come il cuore, il fegato e il cervello sono mangiati per assumere miracolosamente le virtù della vittima: il suo coraggio, la sua forza fisica, le sue qualità morali.

 

 

Tabù fortemente introiettato nelle culture di tutti i luoghi e tutti i tempi, comunque l’antropofagia compare in alcuni, peraltro non numerosi, racconti provenienti dalle antiche narrazioni: quelle nordiche, le nordamericane, le andine...

 

Anche in quella greca tale pulsione profonda e istintiva ha trovato spazi di trattazione, come, per esempio, nel mito di Crono. Divinità pre-olimpica, che corrisponde a Saturno per i Latini, figlio di Urano e Gea (il Cielo e la Terra), Crono aveva sposato la titanide Rhea ed era padre di Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. Appreso dai genitori che uno dei suoi figli l’avrebbe spodestato, per non perdere il potere era uso, una volta nati, inghiottire i propri pargoli. Rhea, allora, per salvare l’ultimogenito Zeus lo diede alla luce segretamante e lo nascose in una grotta sull’impervio monte Ida nell’isola di Creta, dove una capra, o forse una ninfa, di nome Amaltea, lo nutrì. Una volta cresciuto, Zeus riuscì ad avere la meglio sul padre, lo costrinse a rigettare tutti i figli che aveva ingoiato e, prendendo il suo posto. lo relegò il padre nelle Isole dei Beati. Qui Crono, poste fine alle pratiche cannibaliche, si dedicò a insegnare agli abitanti, dei e uomini destinati a vivere in eterno, preziose e segrete tecniche agricole.

 

Pure il mito di Dioniso dimostra in maniera evidente come tematiche cannibaliche attraversino la più remota cultura dei popoli ellenici. Dio protettore dell’agricoltura, figlio di Zeus, rappresentato barbuto anche se poco più che adolescente, inghirlandato, vestito di chitone e mantello o coperto da una pelle di pantera, si credeva che Dioniso dimorasse nei boschi della Tracia e presiedesse ai riti fondati sull’esaltante ebrezza derivata dal vino a cui si abbandonavano le Menadi, sue seguaci e aiutanti. Era, moglie di Zeus, gelosa del fatto che Dioniso fosse nato da una relazione adulterina del sovrano degli dei, assoldò i Titani, rozzi giganti montanari, affinché uccidessero il dio gaudente e adolescente. Questi, allora, lo attirarono in un tranello, lo ammazzarono, lo fecero a pezzi, lo cucinarono e lo mangiarono. Ce n’era abbastanza perchè Zeus accecato dall’ira scatenasse tutta la sua violenza: con una folgore incenerì i Titani, dalla cui polvere nacquero gli uomini che hanno in sé qualcosa di basso e materiale come i giganti assassini, ma anche una scintilla di nobile e di divino che deriva loro dal giovinetto Dioniso. Dunque, le antichissime origini dell’uomo occidentale risiederebbero in atti antropofagici; la pratica cannibalica apparterrebbe dunque alla natura umana profonda tenuta sì sotto controllo dagli elementi culturali, ma pronta riemergere prepotentemente qualora necessità estreme spingano a riproporla.