La bufala zoosessuale della scrittrice pudica
Giambattista Bello
M’è capitato di leggere un interessante libricino, “L’asino” di Jutta Person, ben tradotto dal tedesco da Angela Ricci e con un’interessante prefazione di Paolo Isotta (Marsilio Editori, collana Storie Naturali, 2019). Mi preme sottolineare la validità di questa traduzione, giacché dobbiamo troppo spesso affrontare traduzioni di testi di divulgazione scientifica colme di svarioni; ne abbiamo già scritto in “Le bufale marine del traduttore errante” (sito web NATURALMENTEscienza).
Mentre mi gustavo la lettura del capitolo “Metamorfosi”, contenente riferimenti agli amati Apuleio (“Asinus aureus”) e Shakespeare (“Sogno d’una notte di mezza estate”), m’è balzato all’occhio la parola ‘zoofilia’ riferita all’amore carnale degli esseri umani verso gli animali. Ho immaginato, per un solo fugace momento, alcuni rispettabilissimi e attempati amici, noti per la loro affezione per gli animali, intenti in intimo amplesso con un cane o un gatto o persino un polpo, e, immediatamente, tali ultra-fantasiose immagini hanno suscitato in me il riso per via della loro definitiva impossibilità. Messo da parte lo scherzo fatto a me stesso, è ancor più risaltata l’improprietà lessicale del termine in questione. Nella nostra lingua, la pratica del sesso con gli animali è detta ‘zooerastia’, come riferisce il dizionario online Treccani: “zooerastìa s. f. [comp. di zoo- e gr. ?ραστε?ω «amare», sul modello di pederastia]. – Sinon. più tecn. e raro di bestialità, per designare la perversione dell’istinto sessuale che porta ad avere rapporti sessuali con animali (detta anche zoofilia erotica)”. Per via della mia ben motivata diffidenza verso i traduttori, ho pensato che si trattasse di un banale errore di traduzione, magari sollecitato da una certa reticenza pudica della traduttrice. E invece no: nel testo tedesco originale, infatti, viene usato il corrispondente vocabolo ‘Zoophilie’. Quindi, mi sono detto, è l’autrice ad essere stata pudica. Ma ancora no. La germanista Berni Rago, infatti, mi ha spiegato che in Germania, nel linguaggio corrente, il termine ‘Zoophilie’ [zoofilia] viene usato per indicare sia l’affezione per gli animali scevro da desiderio carnale, sia la perversione erotica che fa uso degli animali per la soddisfazione sessuale. In altre parole, nella parlata tedesca comune, il termine ‘Zoophilie’ indica due ben distinte attitudini dell’uomo verso gli animali.
È opportuno sottolineare, tuttavia, anche da noi si fa un uso ambiguo del termine ‘zoofilia’; come, per l’appunto, è successo nel testo italiano de “L’asino”. Chiamo ancora in aiuto la Treccani per la spiegazione di questo termine: “zoofilìa s. f. [comp. di zoo- e -filia]. – 1. Sentimento o atteggiamento di affetto e di protezione per gli animali. 2. In psicopatologia, z. erotica, sinon. di bestialità o zooerastia. 3. In botanica, […]”. È molto chiara la differenza dei due atteggiamenti, quello di normale affetto, ‘zoofilia’, e quello deviato, ‘zoofilia erotica’, che secondo me andrebbe inequivocabilmente indicato meglio e soltanto col termine ‘zooerastia’.
La domanda che scaturisce da quanto appena scritto è perché usiamo il termine ‘zoofilia’ per indicare anche la mostruosità della zooerastia? Pura ignoranza linguistica? Pudore (ovviamente fasullo)? Paura di chiamare il mostro col suo nome? Scarsa fiducia nelle capacità linguistiche dei fruitori dei mass media? O, più semplicemente, ipocrisia? Non sono in grado di rispondere oggettivamente, pur propendendo per l’ultima delle possibilità da me elencate.
Con un salto concettuale, prendo in considerazione dal punto di vista linguistico le denominazioni di un’altra serie di perversioni sessuali attuate in ambito umano. Mi riferisco al binomio pedofilia/pederastia, che riguarda faccende dalle implicazioni molto più delicate e gravi: i rapporti sessuali di adulti contro minori. È straordinaria la differenza rispetto al binomio, sopra considerato, zoofilia/zooerastia. È piuttosto evidente che, mentre per quest’ultimo binomio i due termini, quando correttamente usati, hanno connotazione diversa, anzi opposta (la prima, zoofilia, positiva e la seconda, zooerastia, negativa), quelli dell’altro binomio sono pressoché equivalenti, secondo quanto riporta la Treccani: pedofilia = “Devianza sessuale che si manifesta con azioni, ricorrenti impulsi e fantasie erotiche che implicano attività sessuali con bambini prepuberi”; pederastia = “Tendenza o pratica erotica che nel significato originario del termine è costituita dal rapporto sessuale di un adulto con un adolescente”. La logica elementare vorrebbe che, usando uno stesso metro linguistico, per analogia con ‘zoofilia’, si dovrebbe usare ‘pedofilia’ nel senso di “sentimento o atteggiamento di affetto e di protezione per bimbi e fanciulli” del tutto scevri di erotismo e violenza. Di contro, la stessa logica, riserverebbe a ‘pederastia’ l’indicazione dell’insieme delle pratiche erotiche imposte dagli adulti ai minori, pratiche dalle lampanti prerogative negative.
In merito ai comportamenti di affezione empatica – del tutto scevra di erotismo e di violenza – degli adulti verso i piccoli, val la pena di ricordare che nell’uomo essi sono un prodotto dell’evoluzione. Sono comportamenti naturali, sollecitati, soprattutto nel caso dei piccoli della nostra specie ma anche di altre specie (soprattutto mammiferi), dai segnali di pacificazione e di richiesta di cura che i bambini ci inviano già con la loro morfologia. Tale ‘affezione empatica’ potrebbe essere indicata dalla parola, etimologicamente appropriata, ‘pedofilia’. Ma ciò non si può fare per via dell’appiattimento e della commistione di questo termine con ‘pederastia’, il che ha reso i due termini quasi-sinonimi, entrambi riferiti a comportamenti esecrabili.
Peraltro, quando ero ragazzino, nel mio paese in provincia di Bari, gli amici un po’ più grandi allertavano i più giovani a non lasciarsi avvicinare da due individui additati come ‘pederasti’; l’avviso di pericolo era accompagnato dal racconto di storie turpi. Nella mia mente ingenua, si formò l’idea che ‘pederasta’ fosse una ‘brutta parola’, una parolaccia da non ripetere mai. In realtà, brutte erano le violenze sui fanciulli perpetrate da quegli uomini, non la parola che appropriatamente li designava. Sin d’allora, per me e, ne sono convinto, anche per i miei coetanei è sempre stato chiaro che quei violentatori erano ‘pederasti’ e che i loro atti orribili erano ‘pederastia’. Questo è un ulteriore esempio della correttezza lessicale del popolino rispetto all’improprietà di linguaggio di certi ampollosi gestori di mass-media che alterano il significato delle parole per fatui motivi (si veda anche “La bufala del giornalista ignorante”, NATURALMENTEscienza).
Ancora una volta, mi chiedo a quale causa è imputabile una tale inadeguatezza lessicale: ignoranza? ipocrisia? In questo caso una risposta c’è. La causa principale deriva dall’uso improprio di ‘pederastia’, vocabolo che progressivamente, già nel XIX secolo, allargò il suo significato a indicare con spregio pure l’omosessualità maschile tra adulti consenzienti. Nel secolo scorso, l’intento di mitigare tale connotazione spregiativa spinse all’ideazione del vocabolo ‘pedofilia’ (infatti, l’edizione del 1965 del Dizionario Garzanti non riporta la voce ‘pedofilia’ ma solo ‘pederastia’). Quindi, si è trattato di una soluzione lessicale impropria e ipocrita al problema della definizione dei rapporti omosessuali. Una soluzione che, una volta di più, ha violentato la nostra lingua.
Ringraziamenti
Sono grato a Berni Rago e a Fabio Fantini per gli spunti di riflessione offertimi.