Una furtiva governance
di Giorgio Porrotto (*)
Il 22 marzo la proposta di legge n. 953, relativa al governo della scuola, è stata approvata dalla Commissione Cultura della Camera. È una terza versione, non più targata Aprea come le altre, e ridimensiona non di poco la precedente (ma non quanto quest’ultima aveva ridimensionato la prima). Si distingue per i silenzi e le mimetizzazioni che l’hanno protetta in fieri, e si ricordi che per tutte e tre le edizioni della 953 si è palesata la rinuncia al cerimoniale mediatico, foriero di non gratuite polemiche. È stata approvata con un insolito voto bipartisan che, secondo logica, ne dovrebbe blindare i passaggi in entrambe le aule del Parlamento. E però è in atto il tentativo, bipartisan ma affannoso, di evitare il dibattito alla Camera, dove modifiche e rinvii sono più probabili, e dove è stato proposto (Cost., art. 72) il deferimento alla stessa Commissione Cultura dell’approvazione finale, in sede deliberante, del disegno di legge 953; deferimento d’urgenza, per evitare anche l’estate. Siamo di fronte ad una iniziativa dotata di molte chance e angustiata da incontenibile fretta.
Tale non era la seconda proposta Aprea. Basti dire che il nuovo testo ne ha sforbiciato molti punti forti: la facoltà di trasformare le scuole in fondazioni, l’assunzione degli insegnanti per chiamata diretta, l’infiltrazione nelle scuole di logiche di mercato e di ardori privatizzanti, e infine l’istituzione delle scuole di tendenza (cioè ideologiche e prevedibilmente religiose, data l’improbabilità di una consistente concorrenza laica). Altri punti forti dell’Aprea 2 ricompaiono nel nuovo ddl: si tratta di due costanti estremamente significative, che fanno da asse portante di tutte le versioni della proposta di legge 953. Le analizzeremo con l’intento di avvicinarci al senso ultimo dei cinque anni in cui, sotto la bandiera di un unico numero di protocollo, sono stati condotti tentativi spiazzanti e contradditori, e nel contempo ostinati e spregiudicati, per cambiare la scuola cambiandone la governance.
La costante di base, quella che ha dato il via a tutti quei tentativi, riguarda la composizione del consiglio di istituto, e così recita: la rappresentanza dei genitori e dei docenti è paritetica. A dispetto della chiarezza con cui è stata formulata, la norma è finora risultata vittima di evidenti incomprensioni. Se la si legge come estensione al secondo grado della pariteticità già vigente nelle Medie, non desta interesse, e comprensibilmente, a causa dello scadimento degli organi collegiali. Se la si legge come invito ai genitori a non allentare la sorveglianza sulla scolarità dei figli, finisce al museo: quanto a capacità relazionali e padronanza di sé, i diciassettenni sono alla pari dei genitori (e prossimi all’urna elettorale), e anche in cultura li stanno eguagliando o superando; in internet poi, fanno loro da capitani. Una traccia microscopica della giusta chiave di lettura la sta offrendo - ma solo agli appassionati di questi temi - il testo della disposizione stessa: il termine “genitori” precede il termine “docenti”, ad indicare che i primi devono prevalere sui secondi perfino nelle aule scolastiche. Come del resto conferma una prerogativa lessicale, esclusivamente italiana, per la quale educare e istruire sono azioni non sovrapponibili, e anche opposte. Non a caso chi la esercita sistematicamente e ufficialmente è la Chiesa cattolica.
Dobbiamo allora immaginare, nelle superiori, consigli scolastici dominati da genitori e docenti pronti allo scontro? I dubbi riguardano i genitori, che dovrebbero passare dal consueto disimpegno alla combattività organizzata, e le ragioni del contendere, che possono non esserci. Ma non ci sono dubbi se si tiene conto della seconda costante sopra preannunciata, per la quale alla composizione del consiglio concorre, su invito e senza diritto di voto, un rappresentante di reti e consorzi promossi dalle scuole, e che possono essere soggetti pubblici e privati, altre fondazioni, associazioni di genitori o di cittadini, organizzazioni non profit. Si tratta delle “reti” (non quelle previste dal Regolamento dell’autonomia, e funzionali alla ricerca e alla sperimentazione in campo didattico) che nel progetto Aprea 2 predisponevano i programmi che i genitori dovevano far approvare; e soprattutto selezionavano, formavano e reclutavano i docenti secondo precise direttive mirate al totale dominio della singola scuola. Nel nuovo ddl 953 le “reti” costituiscono quella forza d’urto che ai genitori manca, e che può avere un raggio d’azione di minore intensità ma di ampia diffusione (anche perché possono far da tramite con le fondazioni bancarie di riferimento). La prospettiva delle scuole di tendenza includeva rischi di auto-ghettizzazione delle scuole coinvolte, e forse è questa la ragione per cui è stata abbandonata.
Il ddl attuale ridefinisce il consiglio di istituto “Consiglio dell’autonomia”, ma impropriamente, visto che nel contempo svincola la scuola dai programmi di Stato per poi organizzarne la sottomissione ad altre potestà istituzionali. Altra cosa è l’autonomia scolastica praticata nei paesi avanzati, e prevista anche dalla nostra legislazione mai applicata: ha come punto centrale di riferimento l’alunno e le prospettive di pieno sviluppo della sua personalità, e prevede la valorizzazione delle differenze, non l’imposizione di dettati rigorosamente uniformi di varia provenienza. A garantire lo sviluppo dell’autonomia non può che esserci -molto prima della distribuzione dei poteri decisionali- l’elevato livello della professionalità docente, la cui crescita continua è imposta dalla sempre più rapida evoluzione della scienza, della globalizzazione, dei bisogni culturali. Forse non è improprio, in questa prospettiva, il ricordarci che il sistema scolastico, considerato nei suoi obiettivi e nei suoi metodi, risulta immutabile da centocinquanta anni, e la formazione professionale dei docenti è stata affidata ad istituzioni incompetenti quali la P. A. e, a seguire, i sindacati.
Il titolo d’apertura riflette una situazione di fatto: la scuola italiana, declassata dal protrarsi del potere burocratico e sindacale e dalle recenti restrizioni economiche, patisce più che mai il mancato supporto degli ambienti culturali e di quelli accademici in particolare (altra particolarità italica); la politica, debole a sua volta, può dunque utilizzare la scuola per i suoi fini di sopravvivenza. Queste considerazioni sono da collegare alla “incontenibile fretta” bipartisan di cui sopra: si tenta di garantire alla Chiesa cattolica entro la legislatura -ricordiamo le sollecitazioni di suoi esponenti di vertice- l’acquisizione di uno “spazio pubblico” da sempre ambito, quale la scuola, e che non a caso è il terzo e il più concreto dei “principi non negoziabili”.
C’è da ricordare, di contro, che il più religioso dei paesi avanzati, gli U.S.A., pratica una assoluta parità di trattamento per tutte le sue numerose religioni, e non concede ruoli istituzionali a nessuna di esse; e che, in Europa, prevale l’idea che la molteplicità e la parità dei diritti delle religioni sia un caposaldo della democrazia.
Il testo delle riflessioni è molto contenuto rispetto a quello a commento delle versioni percedenti:
Arriva la guerra delle scuole ideologiche
Contorsioni, dissimulazioni e fondamentalismi all’opera o in agguato, come testimonia il Progetto di Legge 953 di Giorgio Porrotto
Se la politica scolastica è molto politica e poco scolastica di Giorgio Porrotto
L’Autore invita i lettori ad inviare considerazioni, osservazioni, valutazioni e timori in modo da riuscire a dare la risposta più efficace possibile a questo nuovo tentativo di snaturare la scuola di Stato.
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