Paolo Guidoni Raccomandazioni preliminari per la Ricerca-Azione
Paolo Guidoni
Laureato in fisica nel 1959, ha svolto attività di ricerca in fisica delle particelle elementari (camere a bolle, elettronica) fino alla fine degli anni ’70; poi al CERN, Brookhaven, partecipando alla scoperta di particelle fondamentali tra cui i mesoni strani neutri. Ha ottenuto la cattedra in Fisica Generale nel 1977. Dalla fine degli anni ’70 si occupa di ricerca sperimentale e teorica sui modelli cognitivi della comprensione scientifica, e sulla definizione di interventi scolastici in Fisica e Matematica che siano in sintonia con le capacità cognitive di base. È stato più volte responsabile di progetti nazionali di ricerca tra cui ricordiamo: Spiegare e Capire in Fisica e Fisica per la Formazione Culturale entrambi voluti dal Murst. Il Ministero dell’Istruzione ha invece accolto i progetti Capire Si Può e varie attività nell’ambito del SeT (Scienza e Tecnologia). Nel luglio 2003 è stato l’unico docente italiano a tenere una relazione su invito alla scuola internazionale in didattica della Fisica di Varenna. Partecipa attualmente ai lavori per la definizione dei nuovi curricula di Fisica in Italia e ha coordinato il Piano ISS - Insegnare Scienze Sperimentali.
Silvia Caravita Raccomandazioni preliminari per la Ricerca-Azione
A monte # Il “senso di …” # Ancora sul senso della lingua # Ancora sul senso del numero # Ancora sul senso delle rappresentazioni # Un commento finale # Alcuni criteri, basati sull’ esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base # Alcuni criteri (2) # Alcuni criteri (3) # Alcuni criteri, (4) # Alcuni criteri (5) # Alcuni criteri (6) # Alcuni criteri (7) # Alcuni criteri (8) # Alcuni criteri (9) Per non concludere
“Educazione scientifica” vuol dire formazione a un pensiero/discorso/azione che sappia e voglia guardare/vedere/vivere il mondo com’è, appoggiandosi per questo a strumenti culturali significativi e flessibili (di cui ci si appropria attraverso la mediazione didattica); alla collaborazione con gli altri; alla valorizzazione progressiva della propria autonomia (comprensione, motivazione, creatività, …).
Ci sono allora due “ingredienti” cruciali che intervengono in un percorso di formazione, percorso che deve essere necessariamente mediato cognitivamente ed emotivamente, e necessariamente a lungo termine - quindi necessariamente “lungimirante” in ogni suo momento e aspetto.
- Innanzitutto un contatto diretto, “empatico”, integrato … con le variegate forme della realtà: quelle del sé, quelle delle “cose”, quelle degli altri-quasi-come-sé. Si potrebbe dire: una valorizzazione totale dell’esperienza come prima sorgente di <meraviglia… quindi curiosità… quindi sapere… quindi socializzazione … quindi “competenza”, ad ogni livello> (o con altro ordine dei “quindi”).
- Al tempo stesso una appropriazione attiva e significativa degli strumenti-vincoli “formali” la cui complessità la cultura ha elaborato attraverso i millenni appunto per “mettere in forma” in modo soddisfacente i dati di realtà: il linguaggio, i sistemi simbolici (matematica e quant’altro), i sistemi di rappresentazione iconica e oggettuale, le strategie di organizzazione gerarchica di particolari aspetti corrispondenti a particolari modi di guardare … tutti con specificità autonome ma tutti collegati nella comune impresa di <dare progressivamente senso al mondo>.
D’altra parte questi stessi ingredienti sono attivati implicitamente (in modalità non riflessiva e organizzata) in ogni momento e circostanza della “vita comune”: compito della scuola è riprenderli e riorganizzarli in modo esplicito in contesti controllati, per sostenere in modo emblematico una progressiva appropriazione-interiorizzazione culturale (sul piano dei fatti come su quello delle forme) che sia esplicita, quindi padroneggiata, quindi sentita e utilizzata come strumento dell’autonomia e della creatività di ognuno – in ogni momento del suo sviluppo, non solo in uno sfuggente futuro (non solo per <quando sarai grande …>). E se/quando la scuola riesce a svolgere questo suo compito, sempre la risposta dei bambini/ragazzi assume con evidenza le caratteristiche di una <risonanza>, che li apre e li spinge a nuovi percorsi di motivazione e comprensione.
- Il nodo cruciale che a scuola (ad ogni livello!) si deve affrontare (anche per uscire dalla crisi in cui la scuola di fatto si trova) è quello di assicurare un senso, globalmente condiviso e individualmente appropriato e gestito, a quello che a scuola succede e si fa.
- Per esempio, e in particolare in questo intervallo di età, serve l’appropriazione di un senso della lingua, vista come strumento chiave non solo per comunicare in modo più o meno appropriato, ma anche (soprattutto) per dare forma alla relazione che si stabilisce fra quello che direttamente si “percepisce” dall’esterno e dall’interno e quello che può essere “capito” (progettato, interpretato, modificato …) attraverso una dinamica cognitiva sempre più “astratta”;
un senso del corpo, visto come identità globale (dalla percezione alla funzionalità, dalla motricità al pensiero, dall’affettività alla riflessività …) capace di auto-guardarsi e auto-interpretarsi attraverso la modulazione infinita delle sue interazioni possibili; visto come sistema – complesso e strutturato – inter-agente con il suo interno e il suo esterno; visto come mediatore concreto e risonante fra due “realtà” sempre presenti e sempre sfuggenti – il sé e il mondo;
un senso del numero, visto come criterio/strumento/quasimondo adatto a rivelare forme e assegnare forme in quello che succede e/o che può succedere e/o che si vuole far succedere; quindi gradualmente appropriato come chiave (potente proprio in quanto “astratta-cioè-universale”) per organizzare efficacemente in forma di operazioni controllate molte parti e aspetti dell’interazione finalizzata e creativa con il mondo e con gli altri;
- un senso della rappresentazione (simbolica, iconica, grafica, materiale, …), vista come …
- un senso della materia, vista come …
- un senso dell’ambiente totale, visto come …
- un senso della vita non umana, vista come …
- un senso della affettività e della cognitività, viste come vincoli e supporti anche alle interazioni di socializzazione e al connesso controllo condiviso del mondo: centrate sull’apprezzamento e la valorizzazione da un lato della radicale specificità e diversità di ogni persona, dall’altro della profonda generalità e somiglianza - fra persone - di quello che la cultura contribuisce a sviluppare e definire come patrimonio “comune” e condiviso.
- Si tratta dunque di fare emergere, quindi di controllare gradualmente aspetti diversi (del mondo, di sé …), modi diversi di guardare (di pensare, di parlare, di fare…), strategie diverse (di azione, di progetto, di interpretazione) che differenziandosi, intrecciandosi, integrandosi a vicenda definiscono via via i modi adatti per vivere e con-vivere (con sé, con il mondo, con gli altri).
- In altre parole (da un altro punto di vista): si riesce ad accorgersi/appropriarsi del “senso” quando si riesce a “vedere regole, come in trasparenza” nella natura e nella cultura di cui si vive; quando si arriva a capire che (tutte) le “regole”, di ogni tipo, sono non solo vincoli che rendono prevedibili eventi azioni ed interazioni, ma anche (soprattutto) supporti e strumenti di cui appropriarsi per dare forma efficace alle proprie motivazioni di vita: come diceva un bambino <le regole servono per regolarsi nel modo giusto, e così diventa tutto più facile>.
- L’apparente “naturalità” della lingua, al cui interno (per il cui tramite) si cresce cognitivamente, nasconde una complessità e raffinatezza di vincoli e intrecci di cui anche da adulti non è facile rendersi conto. Ovviamente non si tratta di tenere ai bambini lezioni di filosofia del linguaggio. D’altra parte proprio i bambini hanno un “disperato” bisogno di aiuto (gentile, creativo, divertente … ma strategicamente consapevole e fermo): aiuto ad accorgersi e ad appropriarsi di almeno alcune delle grandi “meta-regole” che collegano in modi potenti <ma> quasi sempre ambigui quello che si pensa/dice a quello che c’è/succede.
- Solo per esempio. La lingua caratterizza con parole-sostantivi i sistemi (di ogni tipo) che sono visti con specificità individuale e relativa stabilità: così si va dagli oggetti (una sedia) agli organismi (un cane), dagli artefatti (una macchina) agli “esseri fantastici” (una strega) … etc; mentre caratterizza con parole-attributi (parole-variabili) i diversi, possibili, variabili modi di essere di ogni particolare sistema (una sedia più o meno pesante, un cane più o meno anziano, una macchina più o meno efficiente, una strega più o meno gentile … etc); al tempo stesso individua classi di individui (i cani … le streghe …) con un semplice “trucco” grammaticale; mentre con un altro “trucco” definisce le sostanze (la carta, il legno, l’acqua, la benzina, la sabbia, …) … etc.
Né filosofia del linguaggio, dunque, né grammatica fuori posto: ma progressiva consapevolezza dei fenomenali giochi di prestigio che con la lingua ad ogni momento si giocano e si possono giocare.
- Solo per esempio. Quasi tutti i più comuni attributi-variabili appaiono nella lingua con termini “opposti”: lungo/corto, bello/brutto, caldo/freddo, buono/cattivo etc; mentre possono essere specificati attraverso caratterizzazioni di estensione o quantità non “metriche” (cioè non conseguenti a misura) – molto/poco, più/meno … etc. Ma essere più caldo (più lungo… più bello…) di …, è lo stesso che essere meno freddo (meno corto … meno brutto …)? Evidentemente no: ma allora, qual è un criterio d’uso plausibile? Serve il confronto con un “normale”? E come si possono interpretare frasi comuni costruite con giochi linguistici quasi acrobatici – molto meno grande di…?
- Solo per esempio. Le “persone” dei verbi rispecchiano le grandi categorie di interazione sociale e oggettuale strutturata: io … tu … quell … noi … voi … quell …. Ma quando è che si può/deve dire <noi>? … etc.
- Solo per esempio. La nostra conoscenza, e la lingua che ne riflette la struttura dinamica, è (appare come) “originariamente” costruita sulla base del riferimento a una realtà fisica esterna direttamente mediata dalla nostra percezione. (Così, fra l’altro, è intuitivamente “vero” per un bambino un pensiero/discorso che rispecchia fedelmente uno stato di fatto, “non vero” se il contrario). Ma immediatamente il pensiero-discorso di un bambino è forzato a prendere atto che il pensiero-discorso culturale ha ben altre caratteristiche – gioca su ben altri tavoli, con infiniti <trucchi>. Da un lato buona parte delle interazioni verbali quotidiane sono implicitamente (duramente) metaforiche; da un altro le configurazioni/trasformazioni del mondo (a cui p.es. non corrispondono oggetti né sostanze) vengono gestite con la stessa grammatica che caratterizza gli oggetti (i fenomeni …) e le loro proprietà (perché si dice la lunghezza, o una forza, o dell’energia – magari pulita – o uno scontro, o la vecchiaia …?). E così via. Mentre una stessa parola può acquistare una enorme varietà di significati a seconda del contesto in cui appare (pensare a <sciogliere>…).
- Ma allora <la lingua è matta?> Allora si può fare come il coniglio di Alice, che dichiara di adoperarla <come gli pare>? Ci sono (quasi) sempre delle ottime, evidenti ragioni per le “pazzie” della lingua, che in sostanza ne definiscono la potenza e l’efficacia proprio in termini della sua flessibilità/incoerenza attraverso i contesti: ma prima di perdere (magari per sempre) la fiducia nel pensiero-linguaggio-azione che è alla base di ogni motivazione e di ogni creatività, i bambini hanno bisogno di essere aiutati su questo piano. In particolare, nel momento in cui si affacciano alla cultura socializzata.
- Infine: è attraverso un uso (cruciale ma) attento della lingua che è possibile appropriarsi fin dall’inizio del significato profondo di ogni costruzione concettuale di tipo “scientifico”, in cui con l’aiuto del “pensiero formale” si spinge il “pensiero fattuale” a comportarsi come un “pensiero-per-modelli”. Non si conosce il mondo come “è”, ma come potrebbe essere sulla base della ricomposizione cognitiva delle evidenze disponibili. Si vive (bene, dopotutto, e con discreta efficacia operativa) in un mondo organizzato fin dalle sue radici strutturali sulla base del <come se>: e per trasmettere questo fondamentale “senso” non sono necessarie lezioni di epistemologia – basta fare attenzione a come si parla/ascolta, a come si agisce e si aiuta ad agire.
C’è una strada alternativa (già sperimentata con successo) a quella più comunemente seguita per l’approccio al numero (oggi dichiarata poco efficace/efficiente anche a livello di ricerca sull’insegnamento): ovviamente una strada possibile, da discutere, certo non obbligata.
- Si potrebbe partire (un po’ da lontano…) da un “senso della variabile”, degli aspetti del mondo che in quanto appunto variabili ne caratterizzano diversità e cambiamenti: servendosi delle strutture della lingua naturale per mettere in evidenza le relazioni fra variabili (“relazioni e correlazioni d’ordine”, in termini formali) che sono alla base di ogni descrizione di fatti e di ogni interpretazione causale (più sabbia metto più il barattolo diventa pesante e più io mi stanco a tenerlo … più tempo si aspetta meno acqua resta nel barattolo che perde … se lei è più pesante di me, perché l’altalena stia pari deve mettersi seduta più vicino o meno lontano… di certo una bambola più bella sarà anche più cara e meno adatta a giocarci all’aperto… più non ci riesco più mi arrabbio … etc)
- In genere le variabili sono “continue”, cioè possono cambiare tanto gradualmente (quasi) quanto si vuole. C’è però una particolare variabile – la numerosità/numericità (che descrive un gruppo di oggetti, una sequenza di eventi, un ordine di sequenza …) che può cambiare <solo di uno alla volta> (si usa dire che è una variabile “discreta”). La numerosità soddisfa tutte le relazioni d’ordine soddisfatte dalle variabili continue, ma <in più> la si può contare: sulla base di azioni ritmiche (sempre mentali, spesso anche gestuali) si può cioè assegnare un nome ad ogni sua diversa configurazione, separando con cura la numerosità stessa da altre variabili (quante patate in diversi pacchi di due chili di patate?...)
- A partire dal contare-piccoli-numeri si apre la strada a due dinamiche concettuali cruciali, che fondano fin dall’inizio il “senso del numero” e ne condizionano ogni suo ulteriore sviluppo:
1) se (appena) appaiono “numeri”, appaiono anche “operazioni possibili fra numeri”, che da subito permettono di scoprire/imporre relazioni e strutture di relazioni fra le numerosità di gruppi diversi: e qui si intendono tutte le operazioni, da gestire all’inizio con numeri piccoli(ssimi): quelle che permettono di controllare gli effetti dell’aggiungere e del togliere cose o azioni omogenee, quelle che permettono di “moltiplicare” e “ripartire” (cose … volte … cose alla volta …), quelle, anche, che permettono di frazionare in modo semplice “unità”frazionabili e di ricomporne la parti ... e così via;
2) appena padroneggiata e apprezzata la potenza di interpretazione e progettazione associata alla gestione della numerosità, si passa ad imporre (in casi semplici, a cominciare dalle situazioni di estensione spaziale a una due tre dimensioni) una struttura-di-numerosità anche alle variabili continue: si passa cioè, sempre con numeri piccoli e con “unità” arbitrarie, alla gestione delle operazioni di misura. (Questo è plausibile e possibile proprio perché numerosità e variabili continue soddisfano alle stesse relazioni d’ordine) - A questo punto è possibile passare in modo motivato ed efficace ai “trucchi” culturali (agli algoritmi) che permettono di gestire i “numeri grandi” e le operazioni fra numeri grandi <come se> fossero numeri piccoli (in sostanza, entro il dieci – una volta padroneggiato il “trucco” dell’abaco).
Ma al di là di tutte le (inevitabili) complessità e contorsioni delle tecniche, il senso del numero avrà messo radici solide, evidenti, fin dall’inizio e progressivamente, per esempio nell’affrontare “problemi” di ogni tipo, nell’associare la padronanza dei numeri a quella dello spazio del tempo e della causalità, soprattutto nel vedere nei numeri non un ostacolo ma un aiuto cruciale a interpretare e controllare la complessità del mondo.
Ancora sul senso delle rappresentazioni (simboliche, iconiche, grafiche, materiali …)
Sul (cruciale) senso dell’iconicità (della rappresentazione in generale, necessariamente spaziale a due e tre dimensioni), della simbolizzazione e così via, profondamente intrecciato al senso della lingua, della forma, del numero etc, c’è già a questo livello di scuola una consapevolezza diffusa.
Si tratta da un lato di raffinarla, soprattutto negli aspetti di intreccio fra diverse competenze (spontanee e acquisite); d’altro lato di valorizzarne alcune modalità.
Solo per esempio, è importantissima quella di un uso sistematico di simbolizzazioni materiali, mobili e variabili, in parallelo e soprattutto prima del passaggio sistematico alla simbolizzazione-rappresentazione grafica, che di per sé retroagisce con un carattere di “definitività” sul pensiero in formazione che vi si rispecchia.
Ancora solo per esempio: un uso sistematico dell’abaco prima di introdurre regole algoritmiche per le operazioni va in questa direzione; ma tutte le “operazioni” stesse (cfr più sopra), anche prima dell’uso della base decimale, possono/devono essere introdotte, e capite attraverso le loro evidenti “proprietà”, a livello di manipolazione di simboli mobili – e i risultati di comprensione approfondita e duratura si vedono!
D’altra parte non si tratta solo di affrontare in questo modo gli aspetti “formali” del sapere: modellizzazioni tridimensionali con materiali e oggetti vari, da collegare e integrare per tentativi fino al “successo” (parziale!) cercato, dovrebbero affiancare anche tutti i percorsi di “scienze”, e le relative rappresentazioni grafiche.
Ci sarebbe molto da dire sull’importanza, per chi lavora a spiegare e insegnare, di avere modelli adeguati (anche approssimati, ma non mitologici) della dinamica cognitiva che porta bambini ragazzi e adulti a capire e imparare….
Per ora solo due brevi spunti su cui avviare la riflessione personale: in particolare sul ruolo cruciale che una attività di “scienze” (presa di contatto col mondo culturalmente mediata) può giocare in tutto lo sviluppo cognitivo e culturale dei ragazzi.
Un primo spunto viene dal “vecchio” (modernissimo!) Galileo: “Io credo la natura aver fatto da prima le cose a modo suo; e poi fabbricato i discorsi degli uomini abili a poter capire, però con fatica grande, alcuna parte dei suoi segreti”.
Ci sono tre fatti, tutti e tre “naturali”, a confronto in ogni umano che nasce e cresce e vive:
- il mondo com’è, fatto non secondo ricette saccenti ma, duramente, “a modo suo”;
- come parte cruciale di tale mondo, le potenzialità cognitive di ognuno – altrettanto duramente definite “a modo loro” dalla nostra caratterizzazione biologica;
- e poi la cultura, “faticosamente” costruita in “discorsi” (verbali, operativi, tecnologici …) attraverso millenni di evoluzione culturale totalmente intrecciata alla natura biologica e fisica del “mondo com’è”.
E per ogni individuo che nasce e cresce, non ci sono “armonie prestabilite” da scoprire, o da essere rivelate: piuttosto, un percorso faticoso ma motivante (quanto “imparare” a camminare e a parlare!) che progressivamente si appropria delle possibili risonanze fra individualità biologica (corpo e mente) e mondo, risonanze che una accurata (strategica) mediazione adulta può guidare e aiutare a svilupparsi.
Non si tratta, di nuovo, di fare lezioni di epistemologia: ma di far “trasudare” da tutto il “comportamento docente” (e quindi far appropriare) una consapevolezza di questo tipo, che è forse il “regalo” più grosso che la prima scuola possa fare a una persona in vista di tutta la sua vita futura.
Un secondo spunto viene da quanto ormai sappiamo che accade a livello della complessa “scatola nera” che controlla e guida la percezione, e che la conoscenza concettuale tipicamente umana sapientemente (“astutamente”) parassita nelle sue strutture dinamiche di base. In particolare, è evidente che già a livello percettivo (umano ma anche animale!) il senso e il significato che guidano l’interazione con la realtà non stanno (sol)tanto nei singoli fatti, quanto soprattutto nelle relazioni fra fatti. (Già i singoli “canali sensoriali” acquistano infatti senso solo in quanto reciprocamente “coordinati” – pensare ai bambini piccolissimi!; mentre i diversi aspetti possibili di uno stesso oggetto trovano riscontro solo in un modello mentale che ci propone un “oggetto intero” mai di fatto percepito in quanto tale; mentre i diversi “eventi” temporalmente puntuali hanno senso solo se organizzati in “fenomeni coerenti” mai percepiti simultaneamente nella loro completezza; … e così via). Sono le relazioni fra fatti, e fra aspetti dei fatti, che sono cruciali alla nostra sopravvivenza – quindi alla nostra conoscenza: ma le relazioni in quanto tali non sono “cose” o “eventi” direttamente percepibili in quanto tali; quindi devono essere “fabbricate” mentalmente (a volte anche “con fatica grande”, a livello di complessità concettuale controllata…) in sostanza per via metaforica; e al tempo stesso “tradotte” operativamente in “discorsi” e azioni. (<Il discorso è ombra dell’azione> ci ricordava il buon Democrito). E l’aspetto più sconcertante (per un “apprendista” che impara), ma al tempo stesso più “miracoloso” (per un “esperto” che riflette) è che la nostra dinamica cognitiva è arrivata nel tempo a “risolvere” (!) il problema “semplicemente” (!) imponendo alle relazioni e correlazioni una struttura dinamica che le tratta-come-se fossero a loro volta oggetti o fenomeni percettivamente evidenti (ricordare quanto detto più sopra a proposito della gestione dei “nomi astratti” da parte del pensiero-linguaggio, o del “numero in quanto astratto” da parte del pensiero matematico). … E così via: ovviamente bisognerà riparlarne, ma soprattutto imparare ad accorgersene attraverso le “normali attività didattiche”. E, ancora, non si tratta di affrontare corsi di epistemologia: si tratta di essere/divenire consapevoli degli “incredibili” problemi e degli altrettanti “incredibili” strumenti che si maneggiano quando si cerca di aiutare la crescita cognitiva e culturale di un “qualcuno” qualunque.
Alcuni criteri, basati sull’ esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
È certamente necessario (anche se non sufficiente) che per salvare la Scuola pubblica dal naufragio forzato in cui di fatto è (stata) sospinta sia avviato e sostenuto un sostanziale (radicale) cambiamento di molti degli attuali modi del fare-scuola. Lo dicono i rilevamenti di efficienza ed efficacia dell’insegnamento così com’è; lo dice la ricerca, nazionale e internazionale, che nel suo autonomo progettare/valutare/proporre nuovi approcci constata anche i danni (cognitivi e culturali, a breve ma soprattutto a lungo termine) provocati da alcuni degli approcci più comunemente accreditati. D’altra parte sarebbe certamente fallimentare qualunque proposta/attivazione di cambiamento che in qualche modo scavalcasse o minimizzasse la responsabilità professionale degli insegnanti (di quelli, almeno, che tale responsabilità accettano, con le sue implicazioni): la “trasmissione” culturale è sempre una delicata e raffinata operazione di mediazione attiva e lungimirante che interviene sullo sviluppo cognitivo (e affettivo) delle persone, e come tale coinvolge totalmente anche la personalità di chi la pratica.
Un cambiamento sensato e possibile del fare-scuola presuppone quindi una gradualità strategicamente orientata e professionalmente condivisa. Non si possono infatti materialmente ottenere cambiamenti significativi e stabili nella formazione dei ragazzi imponendo bruscamente ai docenti nuove regole e/o nuovi programmi totalizzanti (del resto, solo così facilmente “misurabili” nei loro supposti “risultati”). Senza una profonda (di necessità graduale) appropriazione culturale e motivazionale a livello adulto, che consenta a comunità di docenti di far creativamente confluire nel “nuovo” quanto ha valore del “vecchio” (e/o viceversa), nonché di aggiustare creativamente e in modo risonante il generale al particolare (e/o viceversa), il rischio di un (ennesimo) fallimento diventerebbe in pratica certezza. (Basta confrontare quanto è successo nei decenni recenti per convincersene – dallo spargimento di indicazioni di fatto per lo più irricevibili dai supposti utenti, a quello di protesi tecnologiche di fatto per lo più inutilizzabili in modo efficace).
Anche se il cambiamento non può essere che graduale, via via rinforzato da risultati che siano direttamente visibili e apprezzabili sul campo, il cambiamento è comunque difficile e faticoso: specialmente nella scuola di base, dove (a qualunque livello) quello che si fa (non si fa) giorno per giorno (materia per materia) ha ricadute formative che coinvolgono anche altri insegnamenti, e soprattutto estendono i loro effetti su molti anni a venire – sulla vita, spesso. Per questo le strategie di cambiamento graduale non possono che svilupparsi attraverso graduali (prudenti) contaminazioni prima, sostituzioni poi: coinvolgendo parti crescenti (in metodi e contenuti) del fare-scuola a cui si è abituati con parti crescenti del diverso fare-scuola che viene proposto e sperimentato. Mentre il nuovo/diverso deve a sua volta risultare credibile, sia in base all’esperienza adulta (di persona colta, prima ancora che di docente), sia in base a risultati già ottenuti in altre situazioni e (collettivamente) valutati come significativi, sia soprattutto in base ai primi tentativi di introduzione in classe. A questo scopo sono raccolti qui di seguito alcuni suggerimenti-criteri che sono stati evocati dalla lettura delle documentazioni, e che d’altra parte la pratica ha già rivelato utili in situazioni in cui appunto cambiamenti significativi sono stati sperimentati, adottati e validati a scuola. Con particolare riferimento (in questo contesto) a cambiamenti dei criteri di organizzazione della formazione scientifica di base (che di necessità includono molti aspetti di formazione matematica e linguistica). E con l’avvertenza che gli stessi criteri devono essere usati sia per valutare modi ed esiti di esperienze specifiche variamente affrontate per avviare il cambiamento, sia per ottimizzare la gestione concreta in classe di nuove esperienze, sia per progettare quei percorsi a medio e lungo termine la cui coerenza verticale e trasversale è la prima garanzia di “successo formativo”.
Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
1) Riferire ogni “esperienza” al suo inserimento/inquadramento in una struttura concettuale che acquisti via via significato attraverso lo sviluppo verticale e trasversale del curricolo, in risonanza con lo sviluppo cognitivo e in accordo con obiettivi culturali di lungo termine.
Per esempio. C’è, alla base dei nostri modi di guardare /vedere/ agire/ pensare /parlare / descrivere… il mondo un’idea-radice di sistema stabile attraverso i cambiamenti (indicato linguisticamente attraverso un sostantivo) – sistema di cui l’oggetto materiale e l’organismo vivente, in particolare il proprio organismo, sono esempi emblematici; insieme a un’idea-base di interazioni esterne fra sistemi diversi, e interazioni interne fra parti dello stesso sistema, attraverso cui accade tutto quello che accade. E, in parallelo, c’è un’idea di proprietà-variabili (linguisticamente indicate da attributi), appunto “proprie” dei diversi sistemi, che attraverso la molteplicità delle loro variazioni e relazioni reciproche caratterizzano i sistemi stessi e le loro interazioni, i loro modi di essere e di trasformarsi. Questi esempi di modi di guardare/pensare/parlare … costituiscono d’altronde ingredienti e strumenti concettuali cruciali (gli antichi parlando di idee di questo tipo le chiamavano a volte categorie) per riuscire a dar conto in maniera risonante, culturalmente determinata e sostenuta, di tutto quello che accade (di tutto quello che potrebbe, o non potrebbe, accadere).
D’altra parte una formazione scientifica di base non può che aiutare a prendere atto gradualmente, attraverso l’elaborazione e l’organizzazione dell’esperienza diretta mediata della cultura, di come (forse) sono fatti sia il sistema-individuo sia il sistema-mondo: in questo modo accorgendosi che le due cose sono ben diverse, ma al tempo stesso fortemente correlate. Così si “scopre” (ci si rende conto) per esempio che ai principali canali di interazione (sensoriale, materiale, motoria… comunque attiva) del nostro organismo corrispondono altrettanti aspetti cruciali riconosciuti nel funzionamento del mondo esterno, così come sono stati via via organizzati nella storia culturale secondo “regole” che ne permettono un controllo finalizzato (che permettono cioè un “regolarsi” efficace, nella vita individuale e sociale). All’istintivo fare forza corrisponde così (con riferimenti concreti e metaforici) un’organizzazione del mondo esterno e interno secondo forze ed energie; alla percezione visiva, o termica, un’organizzazione secondo luce, immagine, temperatura, calore; al respirare, fiutare… mangiare, dar forma… un’ipotetica organizzazione del mondo esterno e interno secondo “parti piccolissime” responsabili di ogni trasformazione biologica, fisica, tecnologica… e così via. E tutto ciò si è realizzato in una progressione di capire e di motivazione al capire che è lunga quanto lo è stata la nostra storia evolutiva di umani. La definizione progressiva e complessiva di una cultura può innestarsi a fondo nello sviluppo individuale solo se la persona arriva a coglierne e ad attivarne (continuamente nella vita, ma anche molto precocemente) il senso globale di strumento al servizio dell’autonomia e della creatività del vivere.
Ovviamente le idee che in questo modo, gradualmente e all’inizio solo implicitamente, vengono via via proposte all’attenzione e all’appropriazione attiva di chi cresce, attraverso la concretezza delle esperienze e dei “discorsi” sulle esperienze, possono (devono) essere anche idee di per sé complesse (solo così veramente significative): quindi, proprio in quanto tali, mai dominabili completamente nell’arco della scuola di base (magari, della stessa vita …); ma comunque percepite e recepite come capaci di incidere sul pensiero e sui fatti, capaci di motivare quella voglia di “andare avanti” nel capire che così spesso il fare-scuola riesce ad estinguere dopo (attraverso) i suoi primi anni.
Naturalmente molte altre idee “astratte”, in interazione con quelle sopra accennate, sono necessarie per imparare a “regolarsi” nella vita: per esempio quella corrispondente all’interazione totale e aggrovigliata fra una molteplicità di sistemi e di variabili che arriva a definire un ambiente (visto a sua volta come sistema ipercomplesso): intendendo qui “ambiente” nella molteplicità di accezioni (dal biologico al sociologico al tecnologico) che caratterizza questa parola oggi così usata. Anche in casi come questo una specie di “rispecchiamento” dell’idea generale in situazioni anche molto diverse ma concretamente accessibili all’esperienza diretta offre una efficace strada al capire: si può così seguire, per esempio, cosa succede in un pezzo di prato attraverso le stagioni dell’anno (sia le piante che i piccoli animali sono sistemi/organismi complessi e variati, in una continua interazione reciproca e con le variabili ambientali governata dalle specificità di ciascuno e dal loro aggiustamento alla situazione globale); oppure domandarsi cosa interviene, d’inverno, a “regolare” la temperatura in un sistema-casa – o, ancora per esempio, a “regolare” i prezzi delle merci in un sistema-mercato …
In ogni caso nemica del capire, quindi della sensatezza stessa di un fare-scuola-di-scienze, appare la diffusa abitudine (la “carità pelosa”, direbbe Manzoni) di separare sistematicamente, fino a sbriciolarne i significati, i diversi aspetti che sempre sono necessari a dare senso a una situazione concreta di per sé complessa. (Questo, naturalmente, sempre a fin di bene – cioè per “semplificare” il compito proposto: in maniera spesso distorcente di atteggiamenti e aspettative, di fronte a un mondo che più complesso di così non potrebbe essere e che di certo non può essere controllato da un “recitativo ripetuto” di suoi aspetti particolari). Per esempio: al di là dell’attenzione all’azione/reazione di ogni organismo verso l’esterno attraverso i suoi singoli canali-segnali sensomotori, quasi sempre ci si “dimentica” di far notare e apprezzare anche la necessità e la ricchezza delle interazioni e sovrapposizioni dei canali stessi, delle loro confluenze e interferenze comunque necessarie a definire i significati percettivi globali che permettono (a noi come agli animali) di organizzare e gestire proficuamente il nostro essere-al-mondo quotidiano.
Per esempio. È evidente che un’azione didattica coerentemente organizzata sulla base di criteri cognitivi e culturali di questo tipo, azione che di fatto si rivela estremamente più efficace ed efficiente anche in quanto ben più motivante di molte di quelle comunemente in uso, implica alcune stringenti condizioni sulla qualità dell’intervento adulto attraverso tutta la scuola di base: competenza disciplinare (di per sé certamente non specialistica, ma comunque ben padroneggiata nelle sue basi e implicazioni cognitive, come nelle sue radici di esperienza comune); sistematica collaborazione trasversale fra docenti di aree disciplinari diverse; forte coerenza progettuale in verticale nei percorsi curricolari, che non possono essere ridotti a sequenze di acquisizioni frammentarie ma devono essere organizzati secondo linee continue e intrecciate di sviluppo cognitivo e culturale, in funzione di obiettivi co-responsabilmente condivisi da tutti i docenti. Non si tratta infatti di imparare (o essere addestrati-a) qualcosa di strettamente definito: si tratta di imparare a guardare e interpretare il mondo, fidandosi della cultura e della collaborazione interpersonale – ma anche accorgendosi di questo credito di fiducia, e capendone il fondamento. E purtroppo da tutto questo, molto spesso, a scuola-di-base si è ben lontani.
Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
2) “Approfondire” (appropriarsi de) i fondamenti culturali, cognitivi, esperienziali delle idee che vengono proposte come “obiettivi formativi” della Scuola di Base
Per esempio. Le nuove Indicazioni Nazionali per le Scuole dell’Infanzia e il I Ciclo di Istruzione (5 sett 2012) “indicano” fra gli “obiettivi di apprendimento al termine della classe quinta della scuola primaria” quello di “cominciare a riconoscere regolarità nei fenomeni e a costruire in modo elementare il concetto di energia; e fra quelli “al termine della scuola secondaria di primo grado” quello di “costruire e utilizzare correttamente il concetto di energia come quantità che si conserva; individuare la sua dipendenza da altre variabili; riconoscere l’inevitabile produzione di calore nelle catene energetiche reali; …”.
Sembra assolutamente sensato (al di là della cripticità della forma) porre una comprensione seria delle idee-chiave e dei fatti-chiave relativi alla nozione di “energia”, fatti e idee che riempiono i nostri discorsi quotidiani e condizionano i nostri modi di vivere, fra gli obiettivi di una seria educazione scientifica di base. (Un discorso analogo vale ovviamente anche per altre delle “grandi idee”, della biologia e della fisica ma non solo, implicite nelle indicazioni). Dove educazione scientifica di base non vuol dire addestrare a recitare frammenti di libro di testo; o a scimmiottare frammenti delle sedicenti “procedure del pensiero scientifico” (a cominciare dal cosiddetto “ciclo ipotesi-esperimento-verifica”, così spesso stravolto da/in qualche giochino in classe); ma essere aiutati a capire in che senso umanamente profondo e determinante la natura ha fatto da prima le cose a modo suo; e poi ha fabbricato i discorsi degli uomini, abili a poter capire, anche se con fatica grande, alcuni dei suoi segreti … modi di operare. (Galileo). In altre parole: il mondo è così perché è così: ma come è così? Come troviamo “le parole per dirlo”? Perché è il come che dà la chiave per la comprensione articolata dei fatti, e la conseguente autonomia nel dis-articolarli e ri-articolarli per l’interpretazione e la progettazione. È il come che, gradualmente sostituito al perché antropocentrico (a che scopo? Da quale causa volontaristicamente definita?), abitua a vedere e valutare separatamente gli ingredienti in gioco: l’intreccio-groviglio dei fatti, l’intreccio-groviglio dei modi di pensare, ma soprattutto la possibilità che attraverso la mediazione culturale i modi di essere del mondo e i modi di pensare umani possano essere messi in reciproca corrispondenza – in reciproca (potente) risonanza.
E sembra altrettanto sensato suggerire (in modo implicito o esplicito) un cammino progressivo di appropriazione concettuale: prima in modo solo qualitativo, anche se necessariamente in opportune “forme” (forme di relazioni e correlazioni d’ordine fra variabili contestualmente significative che definiscono le interazioni fra sistemi… etc: ma è questo che è accuratamente nascosto dietro l’attributo “elementare”?); poi in modo via via più esplicitamente formalizzato dal punto di vista sistemico, algebrico, fisico-chimico-biologico, tecnologico… esperienziale, soprattutto!… (ma è questo che si sottintende con l’avverbio “correttamente”…?). Però. Da un lato il cammino progressivo di appropriazione concettuale non solo non è “indicato”, ma neanche evocato, né in questo caso né in altri contesti cruciali sul piano cognitivo-culturale di cui le “Indicazioni” sono fitte. (E se malauguratamente qualche sprovveduto volesse orientarsi facendo riferimento ai testi ufficialmente propinati ai ragazzi nella scuola elementare e media, quasi sempre male glie ne incoglierebbe). D’altro lato una grande parte degli Insegnanti che dovrebbero “mediare” culturalmente fra conoscenze e modi di pensare “comuni”, nei ragazzi e nel loro ambiente, e conoscenze e modi di pensare orientati scientificamente, di fatto (provare per credere) va in crisi alla richiesta di organizzare concretamente un percorso didattico efficace sull’energia “da quinta elementare” o “da terza media”. Percorso didattico sull’energia che sia innanzitutto credibile e utilizzabile al proprio livello di adulto (comunque) acculturato. Il nodo vero è che ovviamente l’energia non esiste come riferimento esperienziale concretamente gestibile: infatti l’energia è un aspetto formale, intrinsecamente astratto, dei modi in cui i fatti del mondo naturale e tecnologico universalmente accadono. D’altraparte la “centralità del pensiero matematico” come strumento per interpretare quotidianamente e scientificamente il mondo, pure declamata nella parte introduttiva delle “Indicazioni” di Matematica, non trova poi neanche un flebile, plausibile esempio emblematico in nessuna parte delle specifiche “Indicazioni” di Matematica, Scienze e Tecnologia. Mentre un discorso serio sull’energia attraverso tutta la scuola di base sarebbe un contesto ben adatto a convincere chi insegna e chi impara di questa tesi - anche se ovviamente non l’unico.
Allora? Lasciamo perdere l’energia? Lasciamo perdere tutto? Facciamo solo quello che (forse) sappiamo fare – come al solito? Ma come al solito non va, si vede bene che non funziona, che di fatto spegne (assassina, spesso) le potenzialità presenti nella maggior parte dei ragazzi: almeno questo la ricerca didattica è in grado di certificarlo, in sostanziale accordo con i dati esplorativi delle inchieste internazionali. E la seria responsabilità culturale e civile di chi ha commissionato e costruito attraverso gli anni “Indicazioni” di questo tipo, senza volerne/saperne esplicitare qualche sensato e graduale criterio operativo di attuazione nella “realtà effettuale” in cui pur viviamo, è l’aver coperto per l’ennesima volta in un involucro di ipocrisia quello che è oggi la scuola di base per una troppo grande parte dei suoi occupanti: un laboratorio per insegnare/imparare a far finta – far finta di spiegare e far finta di capire, far finta di insegnare e far finta di imparare. Cos’è questo, uno sfogo? No, una richiesta di attenzione responsabile agli obiettivi, importanti e cruciali dal punto di vista cognitivo e culturale, che ci si vogliono porre: obiettivi che sono necessariamente a lungo termine “verticali” (cfr anche il punto 1) e a largo raggio “trasversali” (cfr anche il punto 5); e alla necessità (cfr anche il punto 6) che questi obiettivi vengano innanzitutto chiariti e appropriati a livello adulto, attraverso una efficace cooperazione interna ed esterna alle Scuole. Questo sull’energia vuole essere solo un esempio “provocatorio” (ma a quando la sua comparsa nei test INVALSI?...): in realtà discorsi simili possono/devono essere fatti per tutte le (già così scarse) attività di “scienze” intraprese a scuola, se non si vuole che anche questi pochi tempi e cure vadano sprecati – o diventino, troppo spesso, addirittura controproducenti sul piano cognitivo e culturale. (A cominciare, tanto per fare un altro esempio, dalla famigerata “crescita delle piantine”: così spesso forzata e stravolta in un “controllo delle variabili alla Piaget”, culturalmente cognitivamente e didatticamente autoreferenziale e insostenibile. E così via, e così via).
Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
3) Il “pensiero formale”: ogni modo/livello di pensiero attivo, dalla percezione al ragionamento, è di per sé astratto, cioè definito da “forme” risonanti emerse dal progressivo aggiustamento fra natura e cultura
Si è accennato in 1) e 2) a un “pensiero formale” quale essenziale strumento cognitivo e culturale: cerchiamo ancora di chiarirne (appena) il senso.
Qualunque modo/livello di pensiero scientifico (cioè di pensiero in grado di acquisire e usare con efficacia modi di vedere, agire, parlare… adatti a mediare l’interazione con il-mondo-così-com’è) parte da “schemi” reciprocamente strutturati di percezione, di linguaggio e di azione: schemi che da un lato tengono conto di aspetti del tutto generali del mondo (p. es. quelli spaziotemporali e causali, su cui è culturalmente basata la costruzione di ogni tipo di logica e di matematica); dall’altro tengono conto degli aspetti specifici dei diversi contesti di interazione, naturale e antropologica, che con gli aspetti generali sempre e necessariamente si intrecciano dando luogo a strutture culturali ormai articolate in sempre più specifiche “scienze” e “tecnologie”. Tutto questo è profondamente radicato nel cruciale “sfondo” costituito dal pensiero-linguaggio-azione culturalmente “comune”, nelle sue complesse articolazioni (quello che già Eraclito riconosceva e valorizzava come “il comune di tutti”).
In altre parole, qualunque modo/livello di discorso sul mondo e sugli umani, quotidiano o scientifico che sia, è di per sé (variamente) “astratto”: astratto in forza degli schemi e dei vincoli (linguistici, logici, matematici, fattuali…) sulla cui base le sue “forme” sono culturalmente intrecciate; astratto nel suo volersi-doversi riferire sia al contesto di immediata interazione, sia agli infiniti altri contesti che proprio l’intrinseca strutturazione del pensiero e della percezione, del discorso e dell’azione può mettere in relazione con il primo. (Sembra…, È come…: da qui parte la lunga strada del pensiero “scientifico”, dall’analogia alla modellizzazione alla teoria guidate dalla risonanza con i fatti).
Per esempio. Abbiamo già visto in 1) che alcune idee-base di scansione del mondo, come p. es. quelle di sistema o di variabile, sono di fatto riflesse (in-corporate, insieme ad altre) nella stessa struttura dell’esperienza concreta e della lingua “naturale”. In modo simile, all’organizzazione “culturale” (cioè meta-percettiva) del mondo (già presente peraltro in molti animali) può contribuire una sua deliberata discretizzazione (pure già presente in molti animali): dal riconoscerne e quindi “contarne” aspetti naturalmente discreti (cioè di per sé “contabili”); fino a rendere contabili in modo culturalmente convenzionale variabili che si presentano all’esperienza come “naturalmente” continue (aprendo così la strada del “misurare”). In altre parole: non si può fare a meno per organizzare il mondo di una grammatica e di una logica, di una sintassi e di un’aritmetica, di una geometria di un’algebra e di una iconicità spaziale… ma nemmeno di una “scientificità elementare” modellisticamente strutturata.Tutti aspetti “formali” del pensiero della percezione e dell’azione, già variamente riflessi nella lingua naturale; tutti culturalmente definiti a diversi livelli; tutti da sviluppare e organizzare gradualmente nel corso della crescita…: ma, proprio in quanto tutti reciprocamente intrecciati e tutti reciprocamente necessari, tutti da sviluppare con una continua attenzione al loro contributo complessivo ad ogni senso e significato (fin dai più precoci livelli di sviluppo).
In altre parole. Da un lato non si può (ed è decisamente e documentatamente dannoso tentare di farlo) separare, nella mediazione culturale verso chi è “nuovo” al mondo e alla cultura, le “forme” dai “fatti”: perché forme e fatti sono reciprocamente necessari a definire umanamente il senso e il significato di quello che è complessivamente in gioco e quindi a sostenere sia la motivazione allo sforzo di apprendimento necessario per accedere al controllo, sia l’organizzazione significativa, efficace, efficiente di quello che s’impara. (La quasi totale separazione, a scuola, fra gli ambienti culturali in cui si dovrebbero sviluppare “competenze” di lingua matematica e scienze è per esempio esiziale proprio allo sviluppo delle “competenze” stesse). D’altra parte tutti i modi di conoscere umani sono strutturalmente organizzati secondo una dinamica di // separazione provvisoria delle componenti presenti nell’intreccio fattuale e mentale // loro elaborazione parzialmente separata // loro recupero e re-intreccio secondo criteri che siano risonanti con il complesso della conoscenza // loro successiva rielaborazione //… e così via: il fatto che il sapere umano sia organizzato in discipline e sottodiscipline “autonome” non costituisce infatti un’aberrazione storica o sociologica, ma un profondo vincolo fattuale posto dal mondo com’è e dalla nostra testa com’è (cfr sopra la citazione di Galileo). Non si tratta quindi di sostituire a scuola di base le “ore” separate di scienze e matematica (e lingua naturale!) con implausibili minestroni di “scienze integrate”: il vero problema, chiave di ogni vero “successo formativo”, è quello di integrare lingua scienze e matematica nella dinamica cognitiva dei ragazzi: sia come sottomondi astratti suscettibili ciascuno di sviluppo parzialmente autonomo; sia come aspetti (“proiezioni”, si potrebbe dire con un’analogia geometrica) del modo in cui pensiero umano e fatti del mondo si aggiustano reciprocamente.
In definitiva, come ormai riconosciuto a livello di ricerca internazionale, le potenzialità di sviluppo autonomo, motivato, “creativo” del pensiero possono essere fattualmente stifled (soffocate) sia dalla mancanza di adeguate stimolazioni culturali, sia dalla rigidità di una imposizione non risonante di schemi e procedure: e questo proprio a partire dai primi anni di scolarizzazione. È la sfida a cui la scuola deve oggi fare “creativamente” fronte, e la “formazione scientifica di base” è un contesto cruciale (“produttivo”) in cui affrontarla.
Alcuni criteri, basati sull’ esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
4) Modi e ruoli delle “storie” nell’aiutare a capire: con verisimiglianza e necessità (Aristotele), evocando e intrecciando pensiero narrativo e pensiero paradigmatico (Bruner)
Per esempio. Diverse proposte di lavoro in classe di primo approccio alla ricerca-azione sono state presentate nel formato di “storie”: in cui impegnare e intrecciare al tempo stesso l’attenzione, l’azione, la motivazione – la comprensione, infine – da parte dei bambini. Forse vale la pena di notare alcuni aspetti di questo tipo di intervento didattico, puntualmente emersi nelle situazioni concretamente documentate.
Una “vera storia” (solo a volte coincidente con “una storia vera”!) cattura, mantiene, stimola l’attenzione profonda di chi l’ascolta in qualche modo rivivendola: in sostanza perché favorisce e sostiene sia l’identificazione personale con scopi, motivazioni ed emozioni dei personaggi “agenti”; sia l’identificazione della personale esperienza del mondo-come-è con le problematiche, i vincoli, le strutture contestuali che la storia evoca e intreccia come proprio “sfondo” causale. Così, secondo Aristotele, gli ingredienti di verisimiglianza (in primo luogo la coerenza interna, sia sul piano di realtà che su quello di fantasia, sia sul piano umano che su quello oggettuale) e di necessità (fisica o biologica, logica o comunque formale, caratteriale o sociale …) garantiscono il potere della “storia” di incidere a fondo sulle realtà individuali e sociali a cui è rivolta. (Ovviamente, a tutte le età).
La vera “storia” quindi non è passivizzante, ma sempre evoca e coinvolge un pensiero attivo (se io fossi nella situazione … allora…) che spinge all’azione diretta (replicante, o variante): nell’intreccio continuo di necessità, possibilità e scelte che la caratterizza, ogni “storia” di successo gioca proprio sull’ambiguità del “coinvolgimento simulato” per portare chi ascolta a sperimentare possibili fatti di vita in una condizione al tempo stesso di esposizione emotiva e di sicurezza esperienziale. E Bruner sottolinea due modalità di pensiero, radicalmente diverse, che ogni “storia” sempre mette in gioco e intreccia profondamente (necessariamente) una all’altra: un pensiero narrativo, che segue il filo delle vicenda in quanto vicenda umana (perché in fondo sono sempre “persone” quelle che vogliono, si emozionano, scelgono, … sperimentano su di sé le conseguenze della loro azioni). E un pensiero paradigmatico, attivato dalla presenza e dalla struttura specifica e differenziata di precisi vincoli-del-mondo - vincoli formali e vincoli oggettuali, vincoli reali e vincoli eventualmente fantastici - che variamente favoriscono, ostacolano, ingarbugliano, evocano, contrappongono … speranze e timori, successi e insuccessi dei protagonisti.
Ora la profonda spinta alla creazione e alla fruizione di “storie” (“narrazioni”) in cui elementi di realtà e di possibilità da che mondo è mondo si mescolano e intrecciano fra loro e con elementi di irrealtà e di impossibilità, è una delle caratteristiche cognitive e culturali più tipicamente umane: basata sulla capacità di “simulare”, immaginativamente ma in maniera coinvolgente, strutture di fatti su cui esercitare l’attitudine mentale a “duplicare” cognitivamente il mondo per meglio interpretarlo, e così dominarlo. (Alla fin fine gli stessi modi scientifici di dar conto della realtà sono di fatto visti, di nuovo da che mondo è mondo, anche come “grandi narrazioni” che si prestano a infinite ed efficaci “variazioni sul tema”). E nelle stesse parole di Proust: “questa sorta di creazione di persone supplementari … i cui elementi derivano per la maggior parte da noi stessi … è una creazione che sempre ci trasforma e vivifica”.
Ovviamente, non si può aiutare a capire la matematica e le scienze caratteristiche della nostra cultura solo sulla base di “storie”: ma queste possono comunque avere un ruolo potente nel convincere che i fatti di matematica e scienze, i fatti di lingua, di logica e di rappresentazione… (tutto quello che a scuola continuamente si cerca di spiegare e insegnare) sono da un lato radicati e innervati nei fatti del mondo esterno (embedded, direbbero in inglese); e dall’altro radicati nelle potenzialità di controllo del mondo specifiche di noi umani, più precisamente embodied (in-corporati) nelle potenzialità di conoscenza che il nostro organismo sostenuto dalla cultura può “creativamente” attivare e sviluppare. Ovviamente, in altre parole, il potere coinvolgente delle “vere storie”, come del resto quello delle “storie vere”, non ha direttamente a che fare con quel faticoso e tortuoso confronto fra pensieri e fatti, parole e azioni che porta ad un conoscere personale organizzato e stabilizzato: abbastanza sicuro da poter essere speso con efficacia, abbastanza aperto al cambiamento da poter crescere senza paure. Ma può dare un contributo cruciale (a tutte le età, se ben gestito) alla comprensione del significato stesso di sapere, e della mediazione culturale e collaborativa che ne è sempre alla base.
Poi, ci possono essere “storie” di ogni tipo – da quelle proposte, drammatizzate, rappresentate, discusse… nei loro significati ma soprattutto nelle loro possibilità di variazioni, a quelle via via inventate nel lavoro collaborativo a partire da una sollecitazione o da uno spunto; da quelle compatte, buone per aprire un modo di vedere innovativo e per essere richiamate come esemplari per confermarlo, a quelle lunghe (anche di mesi, per arrivare a una “chiusura forte”) o addirittura lunghissime (di anni, come sfondo - strutturato e continuamente ristrutturabile -rispetto a cui evocare ed esercitare le diverse competenze in sviluppo).
Per esempio. Un tipo molto particolare di “storia” sono anche i giochi – in particolare tutti quelli che nei modi più diversi evocano e organizzano specifiche capacità centrate sulla necessità di una stringente correlazione fra “pensiero percettivo”, “pensiero attivo”, “pensiero concettuale/astratto”, “pensiero ipotetico”, “pensiero riflessivo” … e così via variando. Ma la capacità di estensione e adattamento delle storie nel motivare e stabilizzare i più diversi contesti di apprendimento è veramente molto larga.
Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
5) La correlazione/cooperazione fra “scienze” diverse nella mediazione culturale
L’uomo è un organismo vivente – il sistema più straordinariamente complesso che (non!) riusciamo a immaginare. Gli snodi centrali della formazione culturale di ogni uomo nuovo che si affaccia al mondo dovrebbero essere, allora, essere centrati su:
- un’antropologia, innanzitutto, che faccia capire in che modi ci diciamo -
culturalmente ed esperienzialmente - come siamo fatti, e come viviamo, in quanto
uomini;
- una cosmologia, che fin da subito cresca insieme all’antropologia, che faccia capire in che modi ci diciamo come è fatto il mondo, e come funziona in tutta la sua esplosione di forme, proprio in quanto mondo-conosciuto-da-uomini;
- una discorsologia, in contrappunto continuo ad antropologia e cosmologia, che faccia capire in che modi e con che ruoli i discorsi degli uomini (per citare ancora Galileo – dalla lingua naturale alla logica alle matematiche all’informatica), così come si sono sviluppati intrecciati e organizzati nell’evoluzione culturale, sono essenziali per dare forma definita a ogni sapere: su noi stessi e sul mondo.
Quando poi i ragazzi cresceranno sarà inevitabile (“naturale”) che le loro diversità individuali siano indirizzate a “risuonare” (in modalità più o meno “forzate”) con aspetti diversi della varietà del mondo. Ma a livello di prima formazione, quando cioè si definiscono e si mettono in forma quasi come per imprinting i modi di guardare/vedere sé stessi e il mondo, è cruciale che la cultura venga presentata e offerta per quello che è: una complessa e aggrovigliata interfaccia che collega tutti i possibili modi di pensare a tutti i modi di essere sperimentabili; un’interfaccia estremamente differenziata, è vero, nelle sue particolarizzazioni -ma anche estremamente “connessa”, all’interno delle sue costruzioni e sofisticazioni ma soprattutto nelle sue radici primarie comunque umane. Siamo, inesorabilmente, “animali umani”: dotati di “aperture” o “canali”, come già dicevano gli antichi(ssimi), che ci mettono in relazione con il mondo esterno, con il mondo interno, con gli altri-come-noi. Ognuno di questi canali (dalla percezione alla motricità, dall’emotività al linguaggio) è estremamente specializzato, e può essere via via raffinato anche sul piano individuale: ma è soltanto dalla loro profonda e totale correlazione che può emergere il significato -quello in base a cui si decide cosa e come fare per … - per vivere, in generale. Ricordiamoci della lunga, portentosa, cruciale fase di progressiva “coordinazione senso motoria” e poi di progressiva “coordinazione linguistica” nello sviluppo di ogni bambino: fasi in cui le diverse strutture funzionali vengono messe in progressiva risonanza reciproca attraverso l’attivazione di super-strutture di coordinamento – in ultima analisi “sedi” di ogni significato, e della stessa coscienza di sé.
Il punto cruciale è che in qualche modo questa esperienza primaria di costruzione di conoscenza significativa “marca” profondamente anche le strategie secondo cui poi si articolano gli sviluppi successivi della conoscenza più tipicamente umana – quella “concettuale”. Per arrivare (ovviamente non è questa la sede per analizzare bene “come”) fino allo sviluppo sempre più differenziato di modi di guardare e di vedere il mondo, via via più raffinati singolarmente in quanto specifici giochi, e al tempo stesso via via sempre più efficaci ed efficienti in quanto più reciprocamente coordinati attraverso un gioco dei giochi complessivo. (Le parole sono di Wittgenstein). Ecco: il fatto che la nostra conoscenza del mondo sia realizzata attraverso specifiche discipline, via via sempre più raffinate nel loro potere di “presa” su aspetti particolari del mondo e al tempo stesso sempre più bisognose di capacità di reciproca modulazione e integrazione per essere effettivamente “utili”, non è né un caso fortuito della storia (come sostengono alcuni) né un’aberrazione mentale da correggere (come sostengono altri): piuttosto, una delle caratteristiche profonde, radicalmente ineliminabili, del nostro essere uomini e del nostro crescere come uomini in quanto parti vive di una cultura.
E se ci fosse ancora bisogno di collegare in modo esemplare la nostra “antropologia” alla nostra “cosmologia”, basterebbe riflettere su come le grandi strutture di base attraverso cui è cresciuta la conoscenza fisica del mondo esterno rappresentino proprio, in qualche modo, il prolungamento delle nostre strutture di raccordo (dei nostri “canali di comunicazione”) con il mondo stesso: Meccanica (movimento, fare-forza, energia …) e Ottica (luce e immagini), Termologia e Struttura della Materia, azione/reazione diretta e “azione a distanza” … hanno organizzato i nostri “discorsi” significativi sul mondo da quando esistono tracce tramandate dei discorsi stessi, organizzati sulla base di forme linguistiche, numeriche, geometriche … e quant’altro. (Poi, certamente, le cose si complicano – nell’evoluzione storica come nello sviluppo individuale: sotto la pressione dei fatti, attraverso il raffinamento dei giochi e, di necessità, nella complessità crescente di ogni forma di gioco dei giochi).
Questo, per dire cosa? Che il significato profondo dei diversi modi di guardare il mondo, e dei diversi modi di elaborare coerentemente “discorsi” sul mondo dotati di significato (e quindi il significato stesso delle “discipline” che organizzano i saperi strutturati) è uno degli obiettivi da perseguire lucidamente e progressivamente (non uno degli “ostacoli”!) attraverso tutta la formazione culturale. Modi di guardare specifici e finalizzati, e conseguenti approcci alle organizzazioni disciplinari, a cui è indispensabile abituarsi ad accedere per poter padroneggiare qualunque contesto concreto (sempre molto strutturato, mai indifferenziato). Modi di guardare da far dunque crescere progressivamente attraverso la mediazione culturale, come patrimonio indispensabile da integrare e finalizzare di volta in volta per poter interpretare e agire “umanamente” il mondo-così-come-è (o almeno come, oggi, culturalmente pensiamo che sia).
Ma allora ogni insegnante, a partire dalla scuola d’infanzia, dovrebbe essere un tuttologo …
No. A livello di scuola di base serve innanzitutto padroneggiare un atteggiamento culturale verso la totalità la varietà e l’intreccio delle conoscenze specifiche necessarie a interpretare, prevedere, controllare aspetti del mondo: atteggiamento che sia d’altra parte ben radicato su tutti quegli esempi significativi di specificità disciplinare e di raccordo profondo con l’esperienza quotidiana (con il comune di tutti di Eraclito) che una “sensata” formazione di scuola secondaria dovrebbe essere in grado di offrire e garantire. (“Dovrebbe”: ma il buon senso, come notava Cartesio, è sempre proclamato ma scarsamente praticato). E se no? Allora, con opportuno supporto culturale, agendo individualmente e “collegialmente”, bisogna intervenire (e non è mai troppo tardi) per ri-conquistare autonomia, dignità e creatività – ma soprattutto soddisfazione profonda – alla professione che si esercita.
Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
6) Insegnare e imparare, spiegare e capire
Di fatto sulla base di rilevazioni dirette, svolte ormai attraverso decenni e in buon accordo con risultati internazionali, una buona parte degli “adulti normali” è in difficoltà a gestire situazioni che hanno come riferimento aspetti dell’esperienza quotidiana: ogni volta che per affrontarne gli aspetti non immediatamente banali venga sollecitata (sia necessaria) una “giustificazione” in termini “formali” semplici (aspetti ‘logici’ basati su grammatica e sintassi, aspetti ‘matematici’ basati su aritmetica e geometria elementari, e così via, attraverso l’“inafferrabilità” degli aspetti algebrici elementari e fino alle più elementari idee di organizzazione del mondo animato e inanimato). E fra questi adulti normali sono ovviamente presenti una parte non trascurabile degli “insegnanti normali”: infatti proprio problemi di questo tipo emergono spesso, come in trasparenza, dalle documentazioni delle attività di classe.
Il problema è estremamente serio perché è praticamente impossibile, per chi non abbia “capito” abbastanza a fondo quello che comunque si trova ad avere “imparato”, guidare in modo credibile al capire chi si trova in condizioni di sviluppo della propria competenza culturale – che si tratti di figli o alunni non fa poi una gran differenza.
Ma perché “capire” si rivela così crucialmente diverso da “imparare”?
Perché capire (appropriarsi delle relazioni profonde che legano la cultura ai fatti) è la condizione necessaria a sviluppare e gestire autonomia e “creatività”; mentre ogni imparare senza capire produce in sostanza solo addestramento e condizionamento – magari ottimi per “integrarsi” in strutture e contesti sociali passivizzanti, ma barriere quasi insormontabili per lo sviluppo di capacità e competenze tipicamente “umane”. Naturalmente le cose non sono mai così drammaticamente distinte, attraverso le infinite varietà e sfumature delle condizioni e dei comportamenti (lo stesso capire è a sua volta intrinsecamente legato a una varietà di forme dell’imparare): ma le conseguenze sul piano umano (isterilimento precoce delle motivazioni cognitive e culturali) e sociale (degrado del “potenziale culturale” della popolazione) sono sotto gli occhi di tutti (oltretutto ben documentate “oggettivamente”).
Allora è colpa degli insegnanti, se... Allora è colpa del sistema, se non… Sì, in un certo e preciso senso è responsabilità del “sistema”, almeno maggioritariamente accettato da “tutti” e/o colluso con la maggior parte, se gli insegnanti (in particolare nella scuola di base) non sono di fatto vincolati, responsabilizzati e (soprattutto) preparati e sostenuti in una professionalità che abbia come obiettivo centrale lo sviluppo di un “capire di tutti” – attraverso i percorsi variamente disciplinari. La nostra società oggi di fatto chiede, verifica e certifica principalmente addestramento, e comunque addestramento “misurabile”: e di capir quel tanto che per mostro o miracolo talvolta nasce d’affanno, è gran guadagno. Salvo poi sciacquarsi la bocca e la faccia con le poche “eccellenze” che comunque naturalmente emergono dalla naturale varietà degli umani, o dalla innaturale distribuzione delle risorse familiari. E quando qualcuno parla di un “furto organizzato di potenzialità umane” di cui la scuola si rende complice e artefice ha sostanzialmente ragione. Purtroppo c’è un grosso nodo che dovrebbe essere chiaro sia agli Insegnanti, sia alle strutture di gestione locale che si vogliano far carico di un “necessario miglioramento” della formazione di base (per esempio in area scientifica): chi insegna è molto spesso in grado di farlo soltanto in maniera di fatto passivizzante, sostanzialmente come “il sistema” richiede.
Un salto di qualità (non di quantità) nella formazione di base richiede allora all’istituzione e all’organizzazione locale di andare lucidamente, nei loro interventi, “contro” le strategie routinarie delle istituzioni centrali; mentre richiede agli Insegnanti di rendersi lucidamente conto che senza un deciso (anche se faticoso, e lungo) intervento autonomo e partecipato sulla propria identità professionale non è possibile sottrarsi a quella “macchina” di cui il “sistema” stesso ha tutto l’interesse a non cambiare significativamente le prestazioni. Individui ragionevolmente addestrati e poco autonomi andranno infatti a formare la popolazione ideale da gestire senza troppi problemi – sui piani sociale e politico.
E sono proprio gli insegnanti, oggi, ad essere “presi in mezzo” a grovigli di scelte drammatiche:
troppe volte strumenti ciechi di occhiuta rapina – che lor non tocca e che forse non sanno; troppe volte impotenti di fronte allo strapotere delle cose così come stanno, di tutti gli altri per cui “così” può anche andar bene.
Troppa retorica?
Ma a scuola di base devono capire “tutti”, perché è ormai dimostrato che “tutti” possono capire, e capire è un’esperienza definitiva per la vita; perché se “tutti” comunque ne escono in qualche modo capaci di leggere, scrivere e far di conto non è questa la cultura minimale che oggi è necessaria a crescere come cittadini responsabilizzabili – e responsabili.
Neanche scrivere senza errori di grammatica né di sintassi, o far di conto da fare invidia a una calcolatrice tascabile, sarebbe oggi (un secolo e mezzo dopo l’alfabetizzazione obbligatoria), una “competenza” sufficiente.
E che capire c’è dietro la gigantesca ipocrisia legale dei “sufficiente” al termine della scuola media?
Da che pratiche imposte/subìte nasce, e cosa stigmatizza, questo serafico “sufficiente”? E che esigenza di aiutare veramente a far capire c’è dietro la melassa retorica delle “Indicazioni”, se ben poche indicazioni operative che vadano verso un effettivo capire se ne possono concretamente trarre?
C’è per fortuna uno slancio di ottimismo che comunque viene evocato dalla scuola di base, così com’è oggi – in particolare da quello che spesso (anche se non sempre!) vi accade, particolarmente nei suoi primi anni: molti Insegnanti sono di fatto in grado di svolgere quella cruciale mediazione verso la “socializzazione” di bambini e ragazzetti che costituisce uno dei motivi essenziali di un fare-scuola che sia, appunto, socializzato.
Personalità in formazione, anche molto diverse, si trovano così ad essere professionalmente indirizzate verso quell’empatia e quell’apertura “umana” senza cui nessuna socializzazione sarebbe possibile. E quello che ci si sente di poter chiedere agli Insegnanti sul piano della prima formazione culturale è proprio una rivisitazione e un “recupero ri-finalizzato” di quegli atteggiamenti (e di quegli sforzi, e di quelle fatiche) che garantiscono il successo della prima socializzazione. “Ma questo costa”. Certo che costa, e molto – proprio in termini di graduale, faticosa ri-definizione della propria immagine e della propria realtà professionale. Ed è per questo che c’è bisogno di (molto) supporto da parte della società locale (di supporto a livello nazionale, ormai, si è persa la speranza – forse, lo stampo). Apparentemente non c’è altro modo: se no, non se ne esce.
Alcuni criteri, basati sull’ sperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
7) Le parole e le cose: fra cognitività di base ed epistemologia “ingenua”
La parola gatto non graffia. D’accordo – e, se è per questo, la parola graffia non fa male.
Però. Ci sono alcuni problemi che nascono dalla riflessione sui nostri modi di pensare/parlare/fare … (i modi più comuni, come i più sofisticati) che sono talmente profondi (talmente “radicali”) da essere accanitamente discussi almeno da quando c’è documentazione scritta sul discutere, e via via fino ai nostri giorni. Cosa possono “implicare”, rispetto alla “realtà” del mondo naturale e umano, i nostri modi di pensarlo/parlarne/agirvi…? L’unica risposta/proposta cognitivamente e culturalmente (epistemologicamente, se si vuole) “sana” è secondo me ancora quella di Galileo, già ricordata sopra: “…io penso più tosto la [medesima!] natura aver fatto da prima le cose a modo suo, e poi fabbricato i discorsi degli uomini abili a poter capire, però con fatica grande, alcuna parte de’ suoi segreti …modi di operare”; con tutte le conseguenze che ne derivano. Se mai, con la precisazione implicita in Machiavelli quando parla di realtà effettuale: la “realtà”, cioè, intesa in quanto capace e responsabile di “effetti” – nel senso più largo della parola.
Dove sono, allora, i problemi?
I problemi nascono dal fatto che, “costitutivamente” (cioè fin dalla sua fondazione, sia sul piano dell’evoluzione culturale che su quello di ogni sviluppo individuale), la conoscenza “concettuale” è di fatto messa in forma e stabilizzata da una “risonanza originaria” fra strutture di percezione e azione e strutture della lingua naturale (tutte culturalmente marcate): così che di fatto, dopo millenni di evoluzione culturale, noi adoperiamo sostantivi per riferirci sia ad oggetti stabili “concreti” che a correlazioni stabili fra variabili di per sé “astratte”: la/una sedia e la/una forza; dell’acqua e dell’energia; la corrente del fiume e la corrente elettrica… e così via.
E ben oltre i sostantivi, questo accade attraverso tutte le strutture-base della nostra grammatica e della nostra sintassi (sostantivi e attributi, verbi e avverbi, congiunzioni e forme verbali… etc). Questo fatto, ben osservabile e anche ben studiabile sia sul piano dello sviluppo storico della cultura che su quello dello sviluppo cognitivo concettuale e culturale degli umani contemporanei, da un lato si presta ad una efficace modellizzazione dell’attività cognitiva umana (ma non è questa la sede per discuterne); dall’altro può dar conto di fino a che punto l’abito di pensiero-linguaggio-azione acquisito come imprinting fin dalle primissime fasi di sviluppo all’interno di una cultura possa di fatto sedurre (la parola è di Wittgenstein) fino all’ingenuità anche il pensiero adulto, eventualmente anche colto e raffinato, di ogni epoca. (“In quanto noi lo possiamo-dobbiamo pensare-dire come esistente, allora esiste”: è la “prova” di Anselmo di Aosta sull’esistenza di Dio).
A qualcuno possono sembrare, appunto, “questioni di lana caprina”: ma non lo sono affatto sul piano della formazione-mediazione culturale, proprio per gli (inevitabili) effetti di “imprinting” che comunque la mediazione induce - in particolare nei primissimi anni della scuola di base. Ed è proprio su questo piano quello che viene in mente quando si riflette sulla documentazione di parole, gesti, strategie, rappresentazioni… messi in atto da parte dei bambini appena sono posti in contesti cognitivamente aperti e stimolanti - non condizionanti; quello che in ogni caso dovrebbe essere presente alle professionalità che gestisce la complessa interazione fra chi cresce e le parole e le cose del mondo-intorno.
“Il mio gatto è molto peloso e ha quattro zampe…e poi ha anche una coda ...”.Brava, d’accordo.
Però. Da un lato il gatto, il pelo, le zampe, la coda… “esistono” in un senso ben definito – cioè in quanto fatti naturali, oggettualmente vincolanti le nostre possibilità (per esempio, fatti potenzialmente graffianti se gestiti in modo malaccorto o malintenzionato). D’altra parte il numero quattro e il numero uno, la “moltità” e la “pelosità”, l’“essere” e l’“avere”… che riconosciamo come ingredienti cruciali per “regolarci” da umani sia di fronte alla realtà che nelle nostre reciproche interazioni, pure “esistono”: anch’essi come fatti, culturali stavolta, che comunque vincolano il nostro successo nell’essere al mondo (per esempio, fatti potenzialmente “imbroglianti”, se gestiti in modo malaccorto o malintenzionato). Ma il senso dei due “esistere” è completamente diverso: si tratta infatti di modi/strategie secondo cui il nostro sistema cognitivo può funzionare e di fatto funziona messo in forma dalla cultura, con l’appoggio continuo e reciprocamente risonante da un lato dei nostri modi di guardare/vedere il mondo biologicamente fondati, dall’altro della cultura ambientale che precocissimamente li definisce. E il messaggio di “mediazione-indirizzo” rivolto a chi è nuovo al mondo e alla cultura dovrebbe essere estremamente onesto e chiaro (né barbosamente sentenzioso né ambiguamente benevolo) su questi punti: che sono, sperimentalmente, alla radice di molte della “confusioni” che intralciano e bloccano la crescita culturale, appena si passa dal banale all’appena più complesso.
Per esempio.- Da dove origina “l’irragionevole (!) efficacia della matematica nella descrizione fisica della realtà” (ma anche in molti altri tipi di descrizione…)?: questa è la celebre domanda di Wigner (matematico e fisico, premio Nobel di un po’ di anni fa). E se è “irragionevole” per lui, figuriamoci per i nostri bambini e ragazzi di fronte al problema di “imparare” a sopravvivere fra matematica e scienze …
[Ma allora ci si potrebbe/dovrebbe anche chiedere: da dove nasce l’“irragionevole efficacia” di grammatica e sintassi della lingua naturale nella descrizione e gestione finalizzata della realtà, quotidiana e non?]
Se i costrutti della fisica teorica, così efficaci nei confronti dell’interpretazione e della strutturazione dei fatti del mondo, corrispondono bene a strutture “reali” del mondo-come-è, non sarebbe allora necessario considerare come altrettanto “reali” i costrutti (“oggetti” e “processi”) matematici sulla cui base le teorie fisiche sono sempre costruite? Questa è la domanda di Putnam, forse il più celebre filosofo-epistemologo vivente. In altre parole, e solo per esempio – e per semplificare: i numeri (le rette … gli insiemi…) “esistono in sé”, e quindi noi dobbiamo soltanto “scoprirne” l’esistenza, attraverso l’evoluzione storica della cultura e attraverso ogni sviluppo individuale? [Platone avrebbe risposto energicamente di sì; e con lui molti matematici e diversi epistemologi di oggi] Oppure i numeri “ce li siamo figurati (ce li figuriamo) noi”, gradualmente, collettivamente attraverso la storia e individualmente nella crescita culturalmente indirizzata: a partire da tutte le situazioni che proprio in quanto “contate” o “misurate” si lasciano gestire in modo estremamente più efficace secondo i nostri scopi? E ce li siamo “figurati” cognitivamente, “separando” (la parola è di Aristotele), e poi variamente ricomponendo, la numericità in quanto invariante nei diversi contesti rispetto alle diverse fisicità caratteristiche di ogni contesto? … E così via. [Aristotele la pensava precisamente così; e con lui Galileo; insieme a molti fisici, alcuni matematici e diversi epistemologi di oggi]. Ma, evidentemente, Wigner e Putnam non hanno dato attenzione, o credito, ad Aristotele e Galileo – o, forse, hanno preferito semplicemente continuare a discutere su qualcosa di intrigante.
[Ma allora, ci si potrebbe anche chiedere, nomi e pronomi, attributi e verbi … “esistono” in sé in quanto tali, o ce li siamo “figurati” noi faticosamente attraverso lo sviluppo sempre più efficace dei nostri “discorsi”?
Qui l’esistenza di lingue naturali con strutture profonde molto simili, e strutture superficiali abbastanza diverse, suggerisce già un tipo di risposta. Fermo restando, comunque, che nessuno sarebbe così folle da pretendere di insegnare a parlare attraverso un apprendimento preliminare delle regole della grammatica e della sintassi, salvo poi “applicare” il linguaggio così “appreso” a fatti selezionati della realtà e della vita che siano “localmente” dotati di significato proprio.
Non si può imparare a riflettere strutturalmente su qualcosa che non è già praticato in quanto dotato di significato – si tratta, in qualche modo, di una “regola della vita.
Ma non è proprio qualcosa del genere che si tenta di fare nel modo comune di “insegnare” matematica e scienze? Queste sono ferocemente separate nell’insegnamento, ciascuna “iuxta propria principia”, e poi improvvisamente e forzosamente ricollegate secondo “convenienze” contestuali?]
Ora è evidente, a chiunque ci guardi con cura sufficiente, che proprio problemi di questo tipo affiorano costantemente nelle dinamiche cognitive che caratterizzano sia la crescita culturale di bambini e ragazzi, sia le loro interazioni (o mancate interazioni, comunque determinanti) con la cultura e la cognitività degli adulti che sono preposti alla mediazione culturale finalizzata.
E non è possibile, per esempio, leggere un resoconto anche minimamente particolareggiato di quello che succede in una classe in cui si lavori “onestamente”, senza accorgersene: non appena, di necessità, si mescolano si sovrappongono e interferiscono fra loro “aspetti fattuali” del mondo e “aspetti formali” dei nostri modi di intenderlo.
Cosicché il controllo di queste interazioni costituisce proprio uno degli ingredienti cruciali perché la dinamica di appropriazione culturale vada a buon fine. Allora dobbiamo fare lezioni di epistemologia alla scuola d’infanzia?
Per prima cosa, niente “lezioni” – ma il nodo è un altro: senza una adeguata “funzione meta-cognitiva”, proporzionata all’età e alla competenza ma comunque sempre necessaria nello scambio fra “il sé e l’altro”, fra il sé il mondo e la cultura, di fatto quello che si produce non è insegnamento ma condizionamento.
Può suonare triste – o anche offensivo: ma è così.
E lo scempio che troppo spesso la scuola di base “normale” produce nelle potenzialità e nelle necessità cognitive di bambini e ragazzi in ambito scientifico-matematico (con conseguenze poi evidenti attraverso tutta la vita adulta della maggior parte della popolazione, quasi indipendentemente dalla scolarizzazione seguente) è proprio legato ad una strategia/ideologia che pretende di imporre una separazione cognitiva a priori (per esempio fra numericità, spazialità, fisicità, “dicibilità”, rappresentabilità…), eventualmente accompagnata da “esempi” di reciproche “applicazioni”: invece di sostenere e assecondare la naturale dinamica cognitiva che si impegna in una progressiva discriminazione delle diverse componenti interpretative a partire da contesti dotati di significato. Questo, in parallelo ad una progressiva elaborazione e organizzazione delle componenti così separate in quanto tali (come se si trattasse di veri e propri “oggetti” e “processi” di diretta sperimentabilità: oggetti-numero, oggetti-nome, oggetti-frase, oggetti-operazione… e così via); e in parallelo a sempre nuovi (anche diversi, anche creativamente ipotetici, anche da riconoscere poi come non-adatti …) re-intrecci delle diverse componenti.
Per esempio quei preziosi intrecci “tentativi” che sono alla base del pensiero metaforico e modellistico su cui si basa la scienza, nonché di uno sviluppo cognitivo e culturale complessivo non dis-integrato. (Come già detto, comunque, niente a che vedere con le sedicenti “scienze integrate”).
Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della formazione scientifica di base
8) Per (non) concludere
Bisognerebbe proseguire, seguendo due fili.
Da un lato bisognerebbe mostrare, attraverso il confronto con i tanti casi concreti resi accessibili dalle documentazioni, che questi discorsi sono solo apparentemente “troppo complicati” (mi scuso per la poca chiarezza) e “sopra le righe” rispetto a un onesto lavoro didattico in classe. In realtà essi possono contribuire in modo determinante, tornando dal generale al particolare, nel lavoro di definire e chiarire strategie didattiche efficaci, concretamente aggiustate alle situazioni più diverse. Riflettere su questi temi appare cioè necessario per indirizzare in modo “professionale” i bambini che stanno crescendo verso quella risonanza avvertita fra fatti e interpretazioni in cui consiste una appropriazione culturale efficace: anche e soprattutto a livello di base, e certamente non solo in ambito “scientifico”.
D’altro lato bisognerebbe aggiungere a questi punti, scelti quasi a caso, quella mezza dozzina di altri che completano la mia “lista di riflessioni urgenti” variamente evocate durante l’analisi dei rendiconti di attività.
Però lo scritto appare già così eccessivamente pesante. E non mancheranno occasioni, se la ricerca-azione potrà/saprà proseguire, per tornare su questi e altri temi nel contesto più adatto ad approfondirli: quello di una comunità di intenzioni e azioni orientate a un obiettivo comune.